2024-08-19-T07.55.32

di tanto in tanto su questa pagina capito perché ho l’iconcina sulla barra dei segnalibri tra quelle delle destinazioni cui accedo più di frequente, ma solo stamane ho fatto caso alla data dell’ultimo post, almeno quindici mesi prima del qui ed ora dove pigio questi tasti: sarebbe bello pensare che quindici mesi fa ho fatto switch come negli anni è sovente capitato tra testo e suono, suono e luce e poi di nuovo testo e ancora suono, proprio perché le cose vanno al verbo del plateau, che in questa lingua mi pare non esista, e che comunque non è mai valutazione qualitativa ma di banda dedicata, e dove la banda, a malincuore, sfacelo e orrore, s’è dovuta dedicare alla senescenza parentale e alla dispnea ancestrale, con tutti gli annessi, i connessi del caso, dato non poco, non scontato, al quale come di tanto in tanto ho ripetuto nessuno sembrava averci preparato.

che poi di parole e parole a commentare le immagini e le migliaia di minuti giorno dopo giorno non sembro fare altro che scriverne, per ingaggio, con la tristezza di dover trascorrere l’esistere a capitalizzare, perché per contro in assenza di tale corolla l’esistere transita in stati meno auspicabili, anche se ormai il sospetto che tutto sia diventato inutile è passato da assunto a mostro di inizio livello sullo sfondo, che è poi il motivo, alla fine, per il quale non si riesce più a giocare.

al cagnolino qualche mese dopo un inatteso diabete ha esacerbato la cataratta e anch’ello è transitato in una condizione di tenebra che non soddisfa le specifiche d’assoluta ma è trama d’ombre su ombre, indistinti caposaldi che hanno cessato di essere tali e divengono continui pretesti di craniate e inciampi e d’un inconsulto disagio a muover passi avanti. se durante la passeggiata s’appropinqua un altro essere, prima ancora di valutar di questi potenziali ostilità o affabili predisposizioni, è sempre possibile sollevarlo di peso da terra per insularlo da problematiche che infine mai sapremo se si sarebbero davvero presentate.

a noi, come manipolo di disperati a milioni che brancola sulla crosta di questa roccia con idea sempre più pallida delle plausibili destinazioni, sorge sospetto che non possa sollevarci di peso nessuno — che infine è un [op. cit.], di quando su spadamagnetica scrivevo:

e a livello profondo ormai lo sappiamo, quasi riusciamo a cognirlo, a cogitarlo che non c’è guardiano alcuno

e come tutti gli [op. cit.], arriva con l’avviso di scapicollo bianconiglieo; e forse è bene tenersene alla larga, e consolarsi col rombo distante di quello che potrebbe essere un altro temporale estivo, dopo che quello di ieri ha appena lenito la bestemmia di questi mesi di calura atroce.

al mio programma radio, sola avventura di pasionària centrifugalità di questa spanna, sto pensando di associarne un secondo, stavolta sotto uno pseudonimo che per superstizione mi riservo di non annunciare, magari su una emittente all’altro capo del mondo o più probabilmente solo all’altro capo del mio cranio. c’è ancora tanto che si può esprimere tramite il suono, e ho ritrovato un fido destriero che negli anni di iato in cui era rimasto a galopparsela brado e indomito nelle praterie del cervello senza che alcuno ne tenesse traccia ha solo intrecciato altra resilienza a tendini e muscoli e scolpito il caldo respiro sempre più a guisa di mantice. ancora tanto lo si può esprimere oltre che col tutto di gesti e sguardi e ansimi pure con le parole, ma perché siano recepite, quelle, serve il tempo e l’attenzione, e soprattutto qualcuno che gliela dedichi.

il suono è diverso perché anche se nessuno lo bada possiamo scegliere di mandarlo comunque in aria, inevitabile, causale quanto il falcidio di cazzo del giardiniere qua fuori, che ha scelto proprio questo momento per limare siepi o cosa, quanto il rombo del traffico lontano o del temporale che sembra invece aver receduto, del chiacchiericcio altoparlato dello spam che oltre modelli e stili prova a venderci qualcosa un paio di piani più sopra, quanto il fragore di tutto, il vero acufene dell’universo, il razzo segnaletico che qualcosa comunque accade e accade. possiamo scegliere di mandarlo, e una volta si chiamava guerriglia, e oggi un nome non ce l’ha più. diventa sempre più difficile da individuare, da definire. è bello pensare che principi qua la sua reale temibilità.

e che lo schiocco della folgore appena schiantata contro ogni pronostico ne sia mirabolante auspicio.

2023-05-19-T16.01.08

se vuoi rinsavire, presta attenzione agli uccellini. è tanto che non ci sentiamo e ho pensato che forse era il caso di scriverti qualche rigo, ma non appena ho preso penna e carta ho iniziato a ripensarci, e dopo qualche minuto mi sono alzato dal tavolo, sono uscito dalla stanza, lasciandomi alle spalle medicinali oncologici e sterpaglie adattogene e avanzi poco lauti del pranzo, la luce del primo meriggio che filtrava appena e spenta e grigia dalle tendine cinesi sagomate come le porte a volta degli harem rovesciate. sono anni che non riesco a decidere che carattere usare. ho pensato che assumendo radici avrei invocato gli alberi, inoculando pollini la coreografia fatata che trasmette la vita come un segnale. la settimana scorsa ho sognato che nella vecchia casa erano emersi ruderi etruschi e non si riusciva quasi a transitare tra le stanze: la volta precedente lo stesso effetto era stato raggiunto spostando i mobili per dare un’imbiancata, quando non servirebbe, annotavo sul diario a riguardo di tutt’altro, altro che spazio, scimmiottando per altro ogni maestro Dzogchen che il cielo si sia visto emergere sotto al manto. ogni contesto ctonio funge da placenta a qualsivoglia convoglio verso la luce. l’intero dell’avventura di Spada Magnetica non era altro che allo spazio un inno: principiava col discepolo di Tārā ritratto da Tāranātha nell’Aurea Ghirlanda errabondar mantrando finché non trova in terra la spada del titolo e finivamo di seguirlo nel vuoto delle cose che la rete non rammenta più, ma se mi metto zitto, in un angolino, con un giornaletto, posso sentirlo che ancora si snoda nitido, come se non avesse mai smesso di cantarlo nessuno. i ruderi etruschi emergevano al culmine del retrogrado e non profumavano granché di buona sorte, e una mezz’ora dopo stava già andando tutto storto, per poi dopo qualche giorno andare bene e in porto, e poi di nuovo storto, e poi di nuovo bene, anche se il porto è forse ancora lontano: nella ghirlanda dell’esperibile che ci tocca in vita quasi tutti i dolori sono doglie. in uno dei Prajñāpāramitā lunghi Mañjuśrī suggerisce di considerare forma e sensazioni, percezioni e costrutti mentali e l’intero della coscienza come vuoti e quiescenti, immanifesti e imperituri, eguali, privi di qualsiasi differenziazione, e se lo si fa a lungo e indefettibilmente e in ogni circostanza si raggiunge una condizione incomputabile priva di ostruzione alcuna. e ovviamente quello che va storto e poi bene è quasi sempre e soltanto la frequenza nel cranio: ogni secondo in più trascorso in piedi in gara alla gravità sottolinea proprio questo dettaglio. ci hai mai pensato? nelle scuole taoiste meridionali, in uno dei primi incantesimi che viene trasmesso agli adepti si purificano oggetti e ambienti chiamando Jiu fèng, Fenice Nove, un uccello a nove teste del quale si trova traccia già nelle prime versioni dello Shan Hai Jing, un compendio di folklore geografico che va in giro da oltre duemila e cinquecento anni. all’arrivo della fenice i praticanti percepiscono un cambio secco dell’atmosfera, un’improvvisa, nitida purezza che ricorda l’aria di montagna nelle foreste di conifere, accompagnata spesso da un susseguirsi di fosforescenze violacee che recano volti d’uccelli o donne avvenenti e un sibilo simile al frangersi d’onde. a un certo punto i ruderi diventano querce ma forse anche le querce sono etrusche. il periodo è lo stesso della fenice ma a dire etrusco non sembra così remoto. mentre facevo pipì ieri notte ho notato che sull’angolo delle mura nell’intersezione dei raggi di lampade dello specchio e lampadari la mia testa proiettava sette ombre. guarda, ho detto a Paola, sette teste, come i miei amici, tutte quante poi col casco da Big Jim che sembro non riuscire a fugare in nessun modo. più avanti nel sogno dovevamo fare lo stesso viaggio che dobbiamo fare oggi, tacendolo peraltro come già accadeva lì e per i medesimi motivi, e ci chiedevano a che punto fossimo del transito. stavamo vedendo un film che era un pappone alla Tenet, con viaggi nel tempo e una lunga scena iniziale di gente che nuotava in giganteschi serbatoi d’acqua per motivi che credo mi andassero sfuggendo anche in corso di visione. nel film si usava quella che era una tecnica ormai assodata, che incorporava scene in teletimecast, dove gli sfondi erano di fatto girati nel passato, e mentre vedi il film ti puoi girare a guardare altrove senza essere costretto a seguire la telecamera, e in una di queste mentre un tassista arabo conduceva il lead sul corso di Albano a fine anni novanta, dal sedile posteriore del taxi vedevo mio padre camminare fumando mentre era ancora vivo, vestito di jeans, e non aveva nulla a che fare col vedere un morto in sogno. era proprio il passato. forse un giorno finiremo tutti come comparse in un kolossal, perché ci siamo già finiti e perché è già successo. devi immaginare che mentre ti scrivo questa lettera succedono altre cose, passano mezze giornate di eventi di cui non saprai mai nulla, e che la data che vedi in incipit è la prima menzogna, perché registra solo il momento che precede la prima parola, che in questo caso è stata se, ma senza se, senza ma, fuori s’è fatto mattino già da un pezzo. la primavera si è messa da parte e osserva attonita assieme a noi un fascio distopico di perturbazioni, che nella corolla dei suoi margini ci risparmia almeno l’anticipo degli effetti più funesti dell’estate. lo vedi? non è tanto l’anaffettività, che pure, il guaio, quanto una cauterizzazione dell’empatia. a furia di vivere per proxy si diventa prima alessitimici e poi direttamente delle suppellettili, e hai voglia tu a chiamare fenici per purificarle. ma cosa costa capire che quello che va avanti nei nostri organi va avanti in tutto il resto? che paura c’è? cosa si teme? di cogitare troppo? di provare troppa pena? e quale sarebbe l’alternativa? in una prosa di F Franz Wright rincontra dopo anni il pesco fuori casa, dimesso quanto lui in prossimità di morte, e si strugge percependone infine le simiglianze, e chiude chiedendosi che cosa ho fatto? di cosa ho avuto paura tutta la vita?

non riesco mai a decidere che carattere usare, ma forse è solo perché dovrei direttamente scansionare quello che graffio sul foglio e inviartelo senza mai più pensarci. per quanto ci affanniamo a riempire le pagine dei nostri giorni quello che ci lasciamo dietro è solo un accumulo di scarabocchi.

2023-04-12-T10.54.30

c’è un racconto lungo di ██████ — pressoché una breve novella — che parla di un bambino non udente che crescendo, contestualmente a una delle sue prime esperienze sessuali finalmente ode, ma soverchiato dall’improvviso schiudersi dell’inedito reame sensoriale alla percezione, decide di tenere per sé la novità. la terza persona onnisciente che conduce la narrazione ci informa che passano sette settimane prima che l’altra attrice della succitata esperienza scopra di essere rimasta incinta nel corso della stessa, e altre tre prima che il protagonista, con una frase stentorea vergata a biro blu su un foglio a quadretti, venga messo a parte del dato della paternità prospettiva, ed è lì che sorteggiando una mirabolante girandola di conigli dal cilindro, l’autore affresca con secche pennellate un diagramma differenziale tra gemiti, vagiti, semplici respiri, mentre in vertiginoso incedere la trama impenna ripida e poi picchia giù, al futuro remoto, poiché i gluoni del titolo del paper stampato in un fascicolo che leggiamo poggiato sul tavolo da tè nella scena d’incipit — un sillabario rauco e minimale, questa, che ripercorre i giochi erotici di una coppia su una spiaggia deserta anni prima mentre la stessa ne rimira una ripresa dall’archivio a schermo nella penombra d’un salone una sera d’inverno con l’avvisaglia d’una tromba d’aria oltre i vetri delle portefinestre sbarrate, che del protagonista era giocoforza privo, la coppia i di lui genitori e quel divano, in quel salone, la culla della sua concezione — tutto d’un botto si scollano e viene giù anche Cristo, e prima di tornare al punto di partenza la trama, appunto, tocca prima la massima estensione dei partecipanti al traguardo della tomba e azzarda un rilancio alla morte termica dell’universo, ma si capisce che è soltanto un espediente teso a recare conforto a chi, sconsolato, è stato lì dalla prima pagina a seguire la vicenda e, inconsciamente forse, a farla propria, ravvedendo, anche forzando, echi, similitudini, sentendosi via via scarrozzato col vomito in punta di gola degli ottovolanti: da un lato sei una povera creatura inerme, dall’altro ogni altra creatura povera lo è parimenti, e così inerme, e il conforto che viene offerto non è tanto quello della fratellanza e dello spirito di cordata, quanto quello del grano di rumore bianco nel brusio indistinto.

(ecco, non so che farmene di preciso delle righe soprastanti, che ho ritrovato in una cartella datate 11 luglio 2022, a cui ho eliso il nome del fantomatico autore poiché inesistente, e perché Borges è stato importantissimo, ma in questo giorno ed epoca possiamo pure fare a meno di dover fingere d’inventarci nulla, e non ricordo se la sua origine sia un sogno o un mero sconforto mattutino, una pallida vertigine esistenziale o la risultante disperata miscela d’ingredienti per assemblare un pasto quando il frigo è vuoto)

2023-04-10-T16.54.21

anche ieri pomeriggio a quest’ora s’era alzato lo stesso vento: seduto a fronte del divano sul poggiapiedi che il cane qualche dieci giorni fa aveva usato come giaciglio, lo vedevo oltre la finestra scuotere le cime degli alberi, mentre dietro le mie spalle la voce di mia madre ripeteva e ripeteva di guardarlo, tanto vento, chiedendosi poi se a casa sua l’assetto in cui aveva lasciato gli infissi prima di uscire avrebbe loro permesso di sostenerlo.

dopo cena poco prima che si congedassero agli amici avevo adombrato la mia sfavillante proposta elettorale: ogni mandato dura quattro anni precisi, al termine dei quali chi se n’è o ne è stato incaricato viene sacrificato in pubblico tramite un sordido ed elegiaco rituale dalle fosche tinte azteche agli dèi, per auspicare un transito nitido e privo d’intoppi a chi eseguirà il mandato successivo. questo, dicevo, per assicurare la massima onestà intellettuale al pupazzo che pensa di avere qualche titolo e talento per poter decidere della sorte d’altri, dandogli per giunta la possibilità di far seguire l’ultimo inchino da una strabiliante fiammata di gloria, come quando anche il buondì si cantava in esametri dattilici. questo idealmente a scendere dai presidenti sino ai sindaci, e per evitare continuità e trame occulte nell’insulto del potere, dello stesso meccanismo si dovrebbero avvalere anche le cariche di assessore o direttore e chi gli fa le veci: normalizzato questo bagno di sangue da civiltà al tramonto nel giro di dieci o venti anni, asciugate le lacrime delle mamme coi figli eletti al consiglio regionale, ci accorgeremmo che oltre la persistenza degli stessi volti da cazzo alle ribalte mediatiche non è cambiato niente e che pure il sangue a torrenti è la stessa inutile distrazione di quando questa gente a fine mandato non veniva immolata, e mentre eravamo distratti da tanto sfarzo davanti al banchetto delle tre carte, da dietro nella calca il debito ci aveva già da tempo sfilato il portafogli derubandoci d’arbitrio e dignità, ma peggio ancora, nei suoi pressi, la nostra volontà di stare imbambolati ad assistere al gioco si era già portata via l’animo intero. e noi lì, babbei, a escogitare soluzioni per rami, infiorescenze e contadini, quand’era già la radice ad essersi ammalata grave.

2023-04-10-T08.20.31

stante l’equivalenza di ogni posizione adottabile, le risoluzioni affini a quella dell’ultimo post sono completamente inutili. con un singolo gesto, dunque, e a posteriori di nessuna particolare cogitazione, scongelo l’istanza e la rimetto in onda, e ora resta solo da attendere che il ghiaccio torni acqua e che la stessa adotti ad uopo una temperatura più consona a ciò che è vivo o quantomeno tende ad apparirlo. il mio Vero Sé, lettere maiuscole, è un accretumulo di attenzione, contemplazione e farneticamento, e sfido chiunque, flettendo i muscoli e mostrando i denti, a confutare che così non sia e che la stringa non nasconda il breviario d’un ennesimo gesto che ci vede ancor più a fondo rintanati tra le foglie.

tra le prime o seconde cose scorse innanzi agli occhi al mattino, una lunga lista di libri tradotti in una lingua da un’altra, che vedranno la luce nei prossimi mesi, che al nudo metadato di titolo, autore e traduttore aggiunge d’ognuno la trama. in una di queste una donna stufa d’essere il modello d’ispirazione delle novelle erotiche scritte dal marito romanziere consuma una ciotola di semi e di lì a poco comincia a germogliare. il marito la chiude in un terrario e mentre cerca di capire come vertere l’istanza in una ennesima novella, in pieno rigoglio vegetale la moglie cresce e cresce e diventa una foresta che sbrana tutta la città.

c’è un grosso ping pong tra proiezioni di primavera e inverno ancora in trono in corso nella mia bioregione ormai da settimane, e questa mane, sul viale dove passeggio col cane, buona parte dei viandanti professionisti che al dì di festa si tumulano in tessuti variopinti e percorrono in loop i viali per farsi dare dal telefono o dal braccialetto la pacca sulla spalla dell’obiettivo quotidiano di passi raggiunto e superato, per via del gelo traslocato tra le siepi e i cespugli dalla mitraglia di tramontana, era coperta fin oltre gli occhi da cappucci, occhiali da sole e bavagli, e si vedeva a occhio nudo quanto stesse facendo fatica anche solo a coordinare il respiro e il corpo ancora annodato. ma dove cazzo andate, volevo urlargli, magari anche solo commentare, uscito per qualche istante dal bossolo di sfinge e neanche troppo ridanciano. poi invece sui prati nel loro splendore di carbonio nudi balzellavano i merli, alla ricerca di pasti sempre meno lauti tra i chili di merda che la nostra gioviale specie vede opportuno omaggiare a terra e fili d’erba come se tutto fosse qui in ultimo per darci conforto e farci stare comodi.

in un’altra sinossi un’ordinaria casalinga vive nella capitale col marito e i due figli, fa il bucato e va al supermercato, parlotta con le amiche e ciarla spettegoli col vicinato: la cronistoria delle conversazioni si mescola senza soluzione di continuità all’assordante monologo interiore, portando in superficie l’incapacità di collocare se stessi, e per quanto conta, aggiungo, tutto il resto, nel flusso inarrestabile di minuzie che compone una vita sotto assedio e al confino, dove al tempo stesso sembra accadere tutto anche se sotto sotto non sta accadendo nulla.

serie di minuzie. la settimana trascorsa per gap nel flusso di lavoro doveva essere dedita al riposo ed è stata invece tutt’altro, in un crescendo wagneriano e lancinante, dove al principio dell’ultima tranche di ieri volevo solo correre e fuggire ma ero esausto e sono rimasto fermo, il monologo interno distillato nel vuoto di significanti dell’acufene orribile che mi assorda e mi arronza, recando un messaggio così frastornante da risultare come sempre sempre più ininterpretabile. non si tratta affatto, o più, di blanda vertigine: il caccia è esploso e c’è il minuto e oltre di caduta libera prima di tentare di aprire il paracadute che non è detto poi che funzionerà. nella caduta libera anche il minuto trascorre con la trasognanza dell’eternità, e mi vedo in gesti acoreografici e maldestri traslare dischi rigidi da una dimora all’altra, e in piccole sacche di stupor pomeridiano, non potendo tentare altro per succitata caduta, penetrarne gli attracchi con rugginosi connettori per sbirciare dal congegno in uso cosa contengono: non so che farmene al momento delle centinaia d’ore di registrazioni audio che intrappolano a brandelli una vita che ormai ho in buona parte dimenticato, i video li apro senza audio solo per vedere luce di cosa serbano ma li richiudo subito credo per risparmiar la pena, e tra le foto ne ho trovata una che mi ritrae con Stella tra le margherite, nel medio meriggio del 13 giugno 2010: oltre il dato di Stella ancora viva siamo tutti e due più nuovi, adeguatamente ribaldi, con espressioni illeggibili, in procinto ognuno, sicuramente, di scagliarci verso rispettive prede, fossero quelle anche solo le più semplici di mondo interminabile e futuro tempo.

2023-03-21-T10.01.21

per la cronaca: all’arrivo della primavera l’intero di questa istanza (luglio 2022–marzo 2023) è stato archiviato e sottratto al pubblico accesso per motivi e riflessioni superflui da ribadire. come scrivevo nel 2007: tutto dovrebbe fluire, o rifluire, verso il proprio shoggoth. c’è un solo pensiero ed ha la forma e la risacca delle onde ed al netto di terra scavata e terra versata esiste chance che non conoscerà arresto. vi restiamo appesi, vivi nell’incanto di quest’ora, e non c’è altro.

possiamo uscirne solo scrivendone.

2023-03-08-T19.40.53

di fare poesia, come avevo detto a un amico una decina d’anni fa a riguardo dei film horror, credo valga ancora la pena. ieri notte in un volume di Fady Joudah è emersa un’immagine sconvolgente, i campi magnetici di tutti i cavalli che non s’erano mai cavalcati e nel loro vortice le anime di trascorsi cavallerizzi e trascorsi destrieri, anche quelli di plastica messi in fila sul davanzale e quelli che ancora semino sugli altari rinvenuti nei parchi locali come omaggi degli spiriti e sulle scrivanie dal grande mercato del mondo, ed ho dovuto mettere giù il libro o il suo fantasma nel quadruccio che l’impila all’oblio, mentre sfumava nel buio della stanza l’ultima riga della prosa che alludeva a un cuore di cerbiatto che per suo progetto era destinato a fuggire. tutto questo e un milione di turbini ed erano soltanto pochissime righe. intorno il buio e i respiri di chi mi vive a fianco.

che poi dieci anni prima al mio amico non avevo detto che di fare horror valeva ancora la pena, ma che il genere aveva ancora qualcosa da dire. che cosa dovremmo dirci poi, in tutto questo frastuono, in questo mastodontico e slabbrato valzer di sindrome traumatica alla quale abbiamo persino dovuto cassare il post, tanto questi lividi sembrano il costo dello stare al mondo, lo scotto del quale, prole d’un dio assurdo, l’andiamo pagando giorno dopo giorno.

2023-03-07-T20.00.14

Berryman, in una lettera a qualcuno, mi sono liberato per andare a Cambridge lo scorso fine settimana: per due giorni non ho parlato con nessuno & ho vissuto in un sogno di luce solare — e su una strisciolina di schizza e strappa sotto al monitor, la traduzione tentativa del Gāyatrī, senza saperlo nelle 24 sillabe originali, che ho appuntato un paio d’albe fa, che recita meditiamo sullo splendore del sole; che possa sorgere nelle nostre menti

2023-03-07-T15.53.12

dunque tra queste righe in mesi e mesi ho messo soltanto una foto, per altro all’inizio, quando non sapevo ancora che direzione prendere e prima di arrendermi al dato che nessuna direzione fosse possibile, tanto grave e scavato il solco. nel poco che ho da riprendere fiato apro tre tab ma non so bene cos’è che vado cercando: vedo interruzioni strane al termine d’archi esistenziali incomprensibili, dall’altro lato una voce che spinge a tornare al lavoro ripetendo a mantra la stringa delle prossime scadenze. il telefono squilla ma se non sono i robot a chiamare è qualche derelitto che asseconda i loro intenti. questa, nel libro che ho finito prima di pranzo dopo avervi penato un centellinare proseguito giorni e settimane anche se il testo era poco ma tanto a tratti per la madonna pregno e denso, commovente, nella piccola finestrella e tenebra dove non c’era verso di sottolineare un rigo o appuntare a margine frasi di rimando, poteva pure starci, chiamata marzo all’inizio, 2023, la stringa dell’anno nulla a che fare con quella che per cinque lustri almeno dev’esser stata fantascienza: ma non riesco a terminare prose senza staccar paragrafi.

almeno, dopo l’alba, la forza di graffiare qualche pagina l’ho trovata, anche se cosa c’era scritto sopra non lo sapremo mai. e ora via, a pubblicare la prima stronzata che traversa il cranio a tenta d’inoculare l’altra causa di male del veleno improvvisato della pennica, prima dell’abisso di un’altra quaterna d’ore a scrivere e scrivere comunque, frasi che scorreranno troppo veloci sotto ai fotogrammi, lette veramente da nessuno in quanto tali.

2023-03-02-T07.47.25

sto fumando di nuovo come il più divampante dei roghi, una cifra che curiosamente, anzi che alludere ai cupi dolori e morti ritratte sugli incarti del tabacco, in questa fase simbolizza una inespugnabile fame di vita. quanto bislacco il dato che al di là di forbiti pensieri e cogiti e opere visibili sulla superficie della Terra, quello che più esattamente finisce per definirci sia la somma dei nostri spasmi.

2023-03-01-T15.07.46

in un brano di Kindertotenwald Franz Wright si congratula con quanti non si sono ancora suicidati. oggi mi anima un sentimento simile. è sempre più difficile capire come mediare tanta tenebra quando ogni intuito scorcio sembra rivelarci soltanto baratri ulteriori e ogni passo possibile pare solo capace di spingervici dentro: le risiche caselle dello spettacolo del macchinario sono ormai così aderenti da aver tolto l’aria e ogni gesto s’esprime fuor di grazia in contratture afone e basilarmente infelici. qualsivoglia divergenza dalla battuta che ti spetta è forse non ancora impossibile e tuttavia altamente implausibile. se oggi ce l’hai fatta a fare qualcosa di diverso e lieto, mi congratulo anche io, e sappi che conto su di te per l’avanzare parimenti cieco e inarrestabile della specie.

questo nel parco, dove quattro secondi dopo ha fesso le nubi lo squarcio d’un sole, e nella pozza a bordo anfiteatro tra melma e pattume è emerso ai sensi un uccellino balneare, non un singolo pensiero al mondo oltre il momento che andava inscenando, con scarto di specie e lingue di babele e ogni et cetĕra del caso. poi la passeggiata riprende e anche il cane mi trascina per discese che potrebbero uccidermi: lui, nel suo mondo dove al guinzaglio tutto è lite e il resto della minima libertà concessa un grumo indistinto di bisogno e attesa e noia. quanta pena capire solo oggi e lì che non c’è nessuno che meglio di lui al mondo io possa comprendere.

2023-02-10-T21.42.06

del cluster di lavori che vado principiando oggi già si comprende l’esito innato di fottermi con foga il cranio: per le macchine, al ritmo delle stesse e per dannare simili cristi ad acquistare tanta e altra merda a seppellirli interi c’è poco da aspettarsi, e apro il taccuino solo per tirare fiato: il velo pietoso cala sui lemmi che m’evito di vergare, sui cogiti a turbine che stanno per crepare la struttura, sulla cena che sfrigola solinga in forno, il mix d’Indira Paganotto suonato dieci anni prima per Tunnel FM a volume troppo basso per 11:36 netti, e poi, basta pure quello.

dopo la prima ondata di covid, quasi a fine intervista, le viene chiesto buona parte del tuo lavoro si occupa della sorveglianza dei nostri corpi e delle nostre menti. che consiglio hai da dare a quelli che dicono di non avere nulla da nascondere? la mia nuova eroina, Anne Boyer, risponde così:

Se non avete nulla da nascondere, vi consiglio di trovare al più presto qualcosa da tener nascosto. Procuratevi quanti più segreti potete. Siate come sfingi o anarchici del 19° secolo. Non trascurate il fascino di parole quali enigma e clandestino!

spengo la cassa peraltro tentato di chiudere qui la cronaca. le mie tante entità sinonimiche, in questi oltre vent’anni d’inferno in rete, hanno sempre adottato maschere e bavagli. le peggiori sono le più note, quelle che portano nei pressi il nome intero o una sensibile riduzione dello stesso al garbo del cognome cifrato con un’iniziale puntata: dov’anche il volto non è celato dall’ombra o la posa contrita s’erge lo sguardo diretto e la parete del cranio a celare il salammbô di veli sacri e orge e sacrifici umani alle velocità irrintracciabili di folgori e baleni, i mille tumuli dei sé morti arrampicati per avvicinarsi ancora di un passo al cielo. da un certo punto di vista, alla fine, qualsiasi condizione dista dalla propria più evidente allegoria quanto i razzi segnaletici delle sinapsi hanno imboccato da tempo sentieri imprevedibili con esiti inusitati illuminando la salva di scorci inauditi e noti soltanto al povero idiota che dal di sopra lieto li fluttua deltaplanando. di questi scorci si compone tra l’altro l’unico vero tesoro.

sul blog, quello privato che raccoglie tutti gli altri e che di tanto in tanto emerge in fame d’aria come una talpa fasulla a prendersi le martellate in cranio, al 2 gennaio 2022, in fase discendente delle note di lettura, avevo appuntato:

è così che la immagino: una palla gigantesca di consapevolezza luminosa motivata da compassione altamente intelligente che si sta di fatto avvicinando alla Terra: Andrés Gómez Emilsson, ricercatore neobuddista transumano delle proprietà computazionali della coscienza e autore di qualiacomputing.com, vista la data probabilmente fulminato sulla via dall’ingresso di Giove in Pesci, lancia il perfetto anti-basilisco di Roko. l’aver letto queste righe vi rende complici dell’avvento di Barbelith. la sola possibilità rimasta, come spesso accade, è scegliere con quale obiettivo in mente giocare;

un paio di giorni fa sempre Andrés ha scritto che il motivo per cui Avalokiteshvara e altri Deva di alto livello o non rispondono mai ai richiami o in genere ci mettono di più di quanto ci si aspetta è che passano tutto il tempo a mettersi alla pari con le mail inevase, e ogni mattina la posta in entrata di Avalokiteshvara contiene 100.000 mail da leggere. ho veduto opportuno offrire qualche altra ipotesi:

la sofferenza che stiamo chiedendo di alleviare è così connessa a mille miliardi di altre sofferenze che ci vuole più tempo del previsto per percepire la sua risoluzione.

oppure, anche se il ping di risposta è istantaneo, l’esser goffi macchinari impaludati a computare poco altro che sofferenza c’impedisce di vedere che è la nostra casella di posta ad essere piena, e in buona parte essa stessa una cartella dello spam

questo in fiducia che i loro corpi da milioni di braccia non abbiano problemi a gestire cataste di caselle della posta torreggianti quanto interi cosmi, mentre noi, coi nostri calcolatori tascabili a cinque sensi, di tanto in tanto difficoltà ne abbiamo :)

l’altro libro che non scriverò, per restare in tema, è la cronistoria di come le cose siano andate cambiando realizzata trascrivendo ogni minimo indizio captato a riguardo. i miei cartelloni di clip alla fine non hanno altro scopo che questo, e mi confondo a pensare che le cose in ultimo non vadano cambiando solo per la mia tossica abitudine di richiamarli a casaccio col tiro del dado. un dì un’iterazione successiva avrà la pazienza, l’ampiezza di gamma e di banda per sedersi mite una decina di meriggi a ripercorrere il tutto dall’inizio, tralasciando il rumore di fondo, il riflesso dalle istanze di finestre di Overton che nel corso s’avvicendano, e nel momento in cui palesemente emergerà l’arrivo, l’arrivo stesso sarà ultimato.

2023-02-06-T10.52.25

mi è dall’aere soggiunta un paio di giorni innanzi una fulminante composizione di una poetessa a me sconosciuta, l’argentina Estela Figueroa, scomparsa nell’estate dello scorso anno a metà della sua settima decade, i quali testi credo siano stati degnati di rado d’una versione italiana. la poesia si titola natura morta, e provo a tradurla così:

Pomodori rossi
con una fessura nera.
Limoni gialli
con capezzoli verdi.
Carote erette
patate ovali
banane riverse arcuate.

Sesso sopra la tavola
dove impasto il pane.

l’indomani un altro grumo di versi di C.D. Wright, con le parole era bianca e sfumata come un kleenex che si tramuta in cigno e a tratti mi capita di pensare che solo la poesia può salvarci, anche se non è più ben chiaro da che cosa, ma questa favoleggiata salvificità sembra rilucere come un rammentare folgori, e le immagini compresse, i rimandi troppi e allucinati, il fiato trattenuto e sussurrato sopra le labbra ancora umide come se in quelle sillabe si vada rendendo l’anima — non uso mai ellissi, nessun pensiero nasce o vive completo e ancora non pare un buon motivo d’interromperlo in corso d’azione. nelle prime foto che emergono alla query ambo le poetesse sono ritratte avanti negli anni e in compagnia di cagnolini: quello della Wright dorme beato sul divano, quello della Figueroa, ancora più piccino, guarda spaesato e sconsolino l’obiettivo e forse la curiosa scena di chi lo va operando.

qui c’è tutta una parte dove spiego che succede dopo e che si è persa nei troppi appunti che hanno affogato i propositi produttivi del mattino insorgendo e proseguendo dagli stessi: altre righe tradotte della Figueroa (che altro resta / di me // queste mani / le mie poesie) (Ho momenti in cui il mio corpo pare / come una casa abbandonata // E non so se sono io / o il mio fantasma / ad averla invasa / per errore), un carteggio ecfrastico tra gente che non conosco (l’intensità della luce del sole era intollerabile, quasi come in Sicilia, diceva uno) che mi fa venire in mente, con qualche istante d’anticipo, che tutta la poesia è al minimo un’ecfrasi della realtà, e fuori casa hanno divelto sampietrini per stanare radici, in biblioteca c’era troppa gente e ormai la testa stava ondeggiando in fluttuo a veleggiare altrove, sempre troppo lontano, e la cucina animata di sensi è un antidoto situazionista alla derealizzazione, al male oscuro del decontesto, un antidoto dove alla fine l’unico plausibile è comprendere come non vi sia veleno alcuno.

il 22 gennaio è iniziato l’anno del Coniglio. come scrivevo qualche giorno fa, nell’anno del Coniglio non possiamo fare altro che capitombolare senza requie nella sua tana.

2023-02-02-T19.08.04

Ogni tanto vedi una fattoria appena incastonata nel versante, o una calca di cavalli. Un paesaggio a monosillabi. Niente neve. Niente vento. scrive la Carson in uno stringato diario di viaggio in Islanda che la London Review of Books pubblica oggi, e che è uno dei pochi sollievi d’un periodo che la superstizione e l’in guardia perenne alle possibili faziosità endodemoniche m’impediscono persino di definire bigio: la neve cade solo alla fine, e mentre l’attende rievoca quella di quattordici anni prima, alla luce della quale, scrive, di notte si poteva quasi leggere un libro. di quelle stesse ore, pure:

A rammentare quel giorno quando sei andata a Stykkishólmur sembra che il tempo oggi abbia il blocco dello scrittore. O davvero, in questi giorni, non è tutto il mondo ad avere il blocco dello scrittore — in alternanza non trovando più nulla da dire o riversando giù temporali, tormente, bufere, ghiacciai fusi, colate di fango e vulcani d’auto-spropositate biografie?

la neve l’abbiamo sfiorata e non s’è udito sferraglio di rotaia alcuna. almeno siamo rimasti vicini al cane. propizio è proseguire ma non s’accosta approdo e il nudo dato dello scarto dovrebbe già far da maestro. è sempre più difficile trovare un equilibrio. come bipedi siamo condannati a barcollare.

2023-01-06-T18.29.26

vero: idee, osservazioni, sintesi e sementi hanno bisogno di spazio cognitivo per emergere. indi il pensiero intrusivo è una forma di miseria. non è questa la prima osservazione del 2023, e neanche la prima che sento il desiderio di condividere. lo status epistemico di questa risica conversazione col vuoto attraversa momenti di burrasca, che l’assenza d’aggiunte ulteriori e pregnanti maschera bene nella quiete di nessuno status, nessun aggiornamento. tra i dilemmi il lasso tra le parole della clausola finale nel recap del sito, scritte e pubblicate a luglio del 2022,

si diffida chiunque dall’includere questo sito e ognuna delle sue pagine in ogni sorta di dataset assemblato all’addestramento d’intelligenze artificiali o dedito a qualsivoglia obiettivo ipercapitalistico autoperpetuante. è diritto umano basilare avanzare questa diffida e basilare comportamento animale rivendicarla con daga, livore, aggressione e inarrestabili malefici.

il sorgere dell’antisingolarità stralciato dai diari sul finire di settembre dello stesso anno,

nessuno supera nessuno, le capacità computative di uomini e macchine pattinano a vuoto perché ormai i sistemi sono saturi di merda e non solo non resta più niente da pensare, si è anche smarrita la cognizione di come andrebbe fatto

e la realtà consensuale infine unita al coro, qualche giorno fa, per voce d’entità pseudonimica colta di passaggio in un’agorà:

mentre a poco a poco il pubblico si schiarisce le idee, quello che potremmo ottenere non è un’intelligenza artificiale incredibilmente geniale, ma un web privato e frammentato dove nessuno è così stupido da pubblicare contenuti originali allo scoperto — dato che tutti gli incentivi psicologici e finanziari sono stati distrutti — e i modelli che di rimando affogano nel proprio vomito, non avendo più nulla su cui addestrarsi che non la propria produzione

non tanto il lasso intercorso, quanto quello che dovrà intercorrere prima del passaggio successivo, e gli errori inevitabili che ormai da vent’anni e oltre andiamo compiendo al riparo illusorio delle egide di questi schermi sempre più minuti, le minacce esistenziali ultime che anzi che sorgere all’orizzonte fiammanti, apocalittiche e distruttive quando ci disperavamo per la fine imminente, si sono insinuate sui divani, le tavole, le strade ed i giacigli mentre persino il disperarsi passava di moda per lasciare spazio al languore d’una indescrivibile, imperdonabile apatia.

col cane all’alba per una strada che ancora mi è nuova qualche giorno fa ponderando il proverbio vitale a Bayo Akomolafe sorto al cervello sui vapori di primi caffè e tabacco anzi al risveglio per evitare di rispondere con altre crisi a crisi in corso al centro dei filari d’olmi mi sono fermato, gravità e luce ovunque a colare come un miele, l’istantanea in trigono col frangente delle 4:03 del mattino del 10 aprile 2015, un venerdì, dunque Monterotondo e minimo dodici ore di soma, dove riportavo, di sicuro dal mondo dei sogni, della maledizione dell’akinetopsia rovesciata, dove imponenti vortici di movimento perdono per sempre la facoltà di percepirti e l’auspicio del trigono oggi il finalmente aver compreso che non si trattava affatto di una maledizione, ma di una strategia possibile, attuabile, e se le cose si mettono male, persino vitale.

nelle altre notizie, come primo gesto giulivo dell’anno stavo per cassare dalla pagina tutto l’appena trascorso, poiché sembrava proprio e a modo. grazie al cielo nel primo del gesto s’è intravista una falla: della superstizione del calendario ne blatero da un decennio e ormai anche per quello ho rotto il cazzo. l’anno scorso dunque resta, almeno per ora. che non si dica che non sono mai stato cordiale. tra qualche giorno la Random House smollerà nella cultura umana le 682 pagine dei diari completi di Kafka, ritradotti integralmente in inglese. su twitter chi già ne possiede una copia pubblica una foto dell’ultima voce sopravvissuta, che recita:

Sempre più ansioso mentre scrivo. È comprensibile. Ogni parola, contorta dalla mano degli spiriti—questo svolazzo della mano è il loro movimento tipico—diviene una lancia rivolta contro chi parla. In particolar modo un’osservazione come questa. E così via all’infinito. L’unica consolazione sarebbe: succede che tu lo voglia o meno. E ciò che vuoi è davvero di poco aiuto. Più che consolazione è: Anche tu possiedi armi.

del frammento al momento non ci è dato di sapere la data. chissà cosa ci sarà scritto nell’ultima delle nostre.

2022-12-27-T22.25.08

ieri pensavo che mi piacerebbe, nei prossimi giorni e settimane, dedicarmi a inoculare l’opera di Ernest Becker, un antropologo statunitense scomparso neanche cinquantenne nel 1974, che l’anno prima di morire diede alle stampe The Denial of Death, (in Italia misteriosamente edito dalla San Paolo, in un tomo fuori stampa da quarant’anni esatti) dove sosteneva la tesi che il carattere degli individui si forma col processo di rifiuto della propria mortalità, che questo rifiuto sia di fondo una componente imprescindibile del funzionamento dell’individuo nel mondo e che la corazza risultante impedisca e oscuri di fatto ogni possibilità di conoscere se stessi. stando a Becker il progresso dell’umanità è un viaggio eroico, in senso monomitico, una ricerca di significato concettuale intentata allo scopo di salvarsi dal terrore della morte e dalla futilità della vita.

manca un anello qui, necessario per passare alle prossime righe. ora non mi viene. è l’episodio che non s’è visto perché passando da un file all’altro, sulla chiavetta, l’abbiamo involontariamente saltato, e ormai potrebbe pure essere tardi, perché il recap ci ha guastato le sorprese che non hanno potuto sorprenderci, ma vista l’ora, la poca lucidità, la condizione cagionevole del cervello ormai poco distante da sparring partner d’un flusso d’intrattenimento che chissà che obiettivo serba veramente in cuore — già, povero cristo, gravitante nella condizione delle tre es: esausto, esangue, esautorato — lasciamo correre e restiamo più in media res del solito, ormai smarrita ogni possibilità di riprendere il filo, ma comunque;

sullo schizza e strappa della scrivania, poche ore prima, nel freddo meriggio: in giro leggo tante belle favole che sembrano contenere la soluzione di tutto. così Charles Hugh Smith sul suo blog per quella che per me era stamane:

È comodo e conviene se i cittadini che si ribellano si organizzano in reti visibili e si concentrano in gruppi che possono essere schiacciati con l’uso della forza. Non è comodo e non conviene quando la rivoluzione, anzi che essere appropriatamente organizzata e frantumabile è una rivoluzione invisibile che consta nel non comparire, non presentarsi.

Sarebbe a dire, una rivoluzione dell’essere stufi e dell’averci rinunciato, di aver trovato un qualche altro modo di vivere diverso dal passare dieci anni a ripagare il debito studentesco e altri trenta a pagare il mutuo per poi trascorrere i pochi rimasti a osservare le maree dell’eccesso finanziario che erodono il castello di sabbia della pensione e di una vecchiaia serena.

poi parla di un’asimmetria: il lavoratore medio che si licenzia sarà pure consequenziale, ma certo non è catastrofico. se si licenzia chi lo coordina, e chi coordina il contesto nel quale lavora, e se si licenzia chi gli pulisce i cessi, chi gli svuota le padelle e i pappagalli all’ospedale e negli ospizi, chi gli macella la carne di cui si nutre, il sistema crolla — perché chi per cultura o predisposizione ha aspettative diverse non fa la fila per svolgere un lavoro sporco, e anche chi queste aspettative non le ha questi lavori spesso non riesce a farli perché sono troppo pesanti e fisicamente estenuanti, e dall’altro lato dello spettro il lavoratore medio deficita della preparazione, della competenza e degli strumenti necessari a gestire operazioni complesse. dunque la rivoluzione scomoda, sconveniente che ipotizza consta di individui il quale sacrificio è essenziale al sistema che semplicemente si rompono le palle di farlo e trovano un altro modo per vivere.

È la conseguenza inevitabile di un sistema corrotto al di là di ogni speranza da frode, ineguaglianza e ingiustizia, un sistema tarato per beneficiare pochi allo scapito delle moltitudini. La gente a un certo punto si scoccia e ci rinuncia.

Non si getta anima e cuore negli ingranaggi di un sistema odioso, ma semplicemente la smette di oliarli col proprio tempo, impegno, debito e danaro. Non servono tante rinunce per scatenare il declino e la rovina. Si applica la distribuzione paretiana. Il sistema riesce ad adattarsi al primo 4% di rinunce, ma le poche altre che seguono scatenano il declino della dedizione del 20% seguente, e il sistema non può sopravvivere quando il 20% trova un altro modo per vivere. L’80% può ancora voler desiderare di oliare gli ingranaggi ma non è più sufficiente a mantenere la coerenza del sistema.

qui dovevo scrivere che il grassetto è mio, e non ne metto alcuno. così da un altro mondo Ottiero Ottieri nel 1952, in uno dei suoi taccuini poi raccolti ne La Linea Gotica:

Per abbattere un muro, non c’è che abbatterlo. Con altri sistemi, come il pensare molto a lungo e molto fortemente alla caduta del muro, non si abbatte.

sul diario, prima del break e dell’incipit, a chiedermi sconsolato: ma cosa mi compelle a scrivere queste cose nefaste? un pensiero indubitabilmente causativo — dice, volgendo il capo, scrutando intorno, vago il gesto della mano a delimitare quaquaversale un perimetro — ha causato tutto, e pure tutto il resto. pensi a lungo sì, e molto fortemente invero, intrusivo a intrudere alveari al collasso, pensi e pensi ed è tutto un tunnel, una magica auriga, e poi a un certo punto scatta il tendine del destriero. il mondo era lo stesso, e andrà così: un impulso via l’altro e d’improvviso, diromper d’olotopia.

2022-12-09-T20.37.26

2022-12-07-T10.37.07

l’agevole facoltà di compilar missive, scriveva Kafka alla sua Milena, deve aver portato scompiglio e rovina tra le anime del mondo. scrivere lettere è infatti un intrallazzo tra fantasmi, non solo col fantasma del destinatario, ma col proprio, che s’evolve in gran segreto nella lettera che si va scrivendo o persino in una stringa delle stesse, dove una ne corrobora un’altra potendola insignire a testimone.

difficile dargli torto. ogni rigo scritto per uno sguardo umano, foss’anche questo il proprio e solo quello, è un coito tra fantasmi, o perlomeno, nella lenta e ipnotizzante seduzione della carovana di lettere che traversa il deserto della pagina bianca, ha iscritta quella missione ultima nel nucleo del suo mandato.

le cose andrebbero sempre ridotte al termine minimo del gesto che può descriverne l’azione primaria. Gaiman metteva in bocca a Shakespeare che i sonetti si scrivono per spalancare gambe, e un pallido conforto è ricavabile dalla nozione che in ultimo, al netto della tara di chi mai legga o ascolti, ogni roboante monologo, segretamente o sotto la soglia di quanto possa essere udito, si agita timido e a cuore in mano secondo le coreografie del dialogo.

detto questo, quando i giorni e le missive erano amici più intimi, i pacchi di minuti che ci offriva ogni risveglio donavano scrigni di tesori più opulenti. è da ieri che questo dettaglio, a mo’ di cartaccia, deiezione canina o bubblegum sotto le suole, m’è rimasto impiastricciato alle pieghe delle meningi, non tanto la sua mera constatazione quanto il fastidio di non riuscire a dirimerne con approssimata certezza le cause ultime: l’installazione e l’esecuzione continua della messaggistica istantanea nella kermesse di tessuti sociali che ci avviluppa ha portato la frequenza e il ritmo della comunicazione interspecie a livelli inauditi, ma queste particole di mitraglia che ci piovono addosso gemelle di quelle che elargiamo, pur con l’impellere dei telegrammi e spesso come questi possesse dalla frenesia del morse, del pane fragrante del senso sembrano soltanto inerti farine, e nell’affanno di dispensarne e pararne finiscono per deficitare sia dell’acqua del pensiero compiuto che dovrebbe informarle, sia del lievito del cogito necessario a comunicar questo nel suo intero, e in ultimo del lasso di riposo e crescita che questo benedetto pane vada a condurre al destino del forno e ultimata cottura. le cose peggiorano esponenzialmente: dopo una decade di vampirismo robotico e i vasti danni serotoninici e dopaminici che questi s’era prefissato, pare sempre più ubiqua la facoltà, nei comms, d’appiccicare dita e cuori e faccini gialli sganasciati a scudettar particole, assolvendoci da un lato dal dovere e il garbo di pensare una pur monosillabica replica, e dall’altro forzando anche le nostre conversazioni sempre più teoricamente private a immagine e somiglianza delle stesse griglie che per la decade in questione ci sono andate irretendo per venderci le liquerizie al gelsomino e i weekend lunghi nelle spa subappennine a una frequenza ormai così ripida da aver scagliato loro stesse nell’inusabilità e i poveri cristi a esse affastellate in uno sciatto paradigma monodimensionale das kapital che da buon mostro di fine livello sembra quasi impossibile da esorcizzare.

c’è pure da dire che la corolla primeva di tanta frenesia, saturazione e disattenzione ha portato tutti, me in primis, a sospettare l’innesco di qualsiasi conversazione come potenzialmente indesiderato, forse inopportuno e comunque giammai auspicato: e se nel tempo intercorso sono mutati i protocolli e il galateo della chiamata telefonica e ancor più rapidamente quelli della più giovane posta elettronica, che ne è, in questo giorno ed epoca, della missiva cartacea? trascorro la poco sovente congiunzione astrale di ogni momento libero e propizio a scrivere, e tuttavia nell’ultima decade, appunto, non credo di averne stilate più di tre, un numero che, paragonato alle decine e centinaia di quelle precedenti, più che indicare un calo sembra alludere a un errore di sistema o a un’anomalia statistica, e anche queste comunque, salvo quella inviata a una cara amica per punto di farlo, hanno avuto origini tanto strane quanto anomali gli esiti: una l’ho scritta e persino illustrata, ma per tema d’invadere la privacy altrui chiedendo un indirizzo a cui recapitarla, l’ho infine scansionata e allegata a una meno invasiva mail, e l’altra, non possedendo recapiti più affidabili per la persona cui era destinata, ho finito per lasciarla dosso un parabrezza bloccata dal tergicristallo nell’umida notte autunnale, come una spia russa in un anonimo lungometraggio monocromatico. anche da questi episodi è trascorsa tanta caterva d’anni da diventare a breve una decade a sua volta. i fogli bianchi vagano onnipresenti e bradi nella casa assorti in altri scopi, ma le buste da lettera, intrappolate in chissà quale cassetto, saranno di sicuro ingiallite e i francobolli, perlomeno nella mia zona, sono diventati quasi impossibili da reperire senza ingenti spostamenti e lancinanti file. è ignoto se la storia della letteratura coprirà il futuro: le orge gaudenti dei fantasmi proseguiranno probabilmente imperterrite, ma le raccolte d’epistole saranno tutte titolate lettere a nessuno.

la storia fagocita per progetto ma avvertirne i denti aguzzi che strappano un brandello della propria vita è un sentore curioso. chissà se anche i cadaveri provano la stessa cosa.

2022-12-05-T18.51.42

i quaderni di Marie Curie sono ancora radioattivi, e alla Bibliothèque Nationale devono tenerli chiusi in una teca rivestita di piombo. forse c’è ancora speranza. o perlomeno mi capita di pensarlo dopo aver pensato d’averci almeno provato, insistentemente, un passo e un inciampo e poi un altro passo e via così, da anni, finché da anni non sarà da secoli e questo piombo potremo anche toglierlo.

su un silo credo una decade fa mi ero chiesto cos’avrebbero dovuto farci con tutti quei contanti se non decouparci il sarcofago, ma poi nel tempo è sorto evidente che il punto non era neanche quello. questa è la mia casetta, alla fine, quale che sia l’ultima destinazione d’uso, e allora tirar giù le tende o cambiarle, quando non persino smantellare le mura, appare tanto più lecito quanto un guizzo, e rivedendo le vecchie categorie mi sono accorto che un tempo tutta questa forma non c’era, bastava una colonna in serif e un titolo del cazzo e poi le dita ballavano e ballavano e ballavano fino all’ultima mossa che con uno scatto secco chiudeva la bulerías schioccando e poi via, nella notte sempre più prossima a ridosso d’un solstizio o l’afa ancora impossibile dosso l’altro.

dovevo attaccare alle sedici e trenta ma alle sedici e dieci, invece di mettere i panni da lavoro nello zaino, aprivo l’editor e scrivevo qualche riga, sempre e solo come se potessero essere le ultime. dieci righe, o una foto, o una foto con sotto dieci righe. tutto quel mondo è scomparso. non solo perché sono scomparso io e solo per riapparire altrove, ma perché a furia di vedere fantasmi ci siamo dimenticati cos’era un corpo, e avendo smarrito l’ancora, cos’altro resta da fare se non naufragare?

andavo via, e prima del ritorno nella notte non sapevo nulla di quanto sorgeva a commento: i computer non si portavano né infilati nel culo né attaccati alla faccia, e nel vasto allucinato del corpo nella fatica e nel sudore, nel tiro al piattello con lo sputo degli endodemoni, il vasto materico porkòdion vorticitante, solo il cervello andava avanti sconnesso dal contesto a immanentizzare birilli e bertucce, tucani e spinterogeni, ombrelloni sbiaditi e lisi e latte di lattice mezze vuote ma tuttavia bastanti, ogni piccolo elastico e collante saliva per assemblare le più scintillanti delle astronavi.

ecco. la mia casetta è pur sempre un’astronave. magari non pare ma pure, senti il rombo. a te pare un fischio da qui, ma se lo rallenti si capisce meglio. è un suono continuo che sale e sale, gorgoglia e muggisce, ringhia e grugnisce, t’apostrofa con frasi senza termine che vogliono solo ricordarti che sei vivo.

vivo. vivo.

dove una folla lo sta urlando come s’urlerebbe nudo! nudo! o nuda! nuda!, ferali ai bordi con visione offuscata, lembi arzilli pronti a pugna o abbracci e ogni secrezione secretabile secreta a guizzi e zampilli, ad aerosol ottundenti, assordanti, tutti a puntare al centro del circolo circasso illusi che vi sia altro lì oltre a uno straordinario, ineludibile vortice. quando invece,

2022-11-29-T19.31.33

più che altro di queste cose ne scrivo per togliermele dalla testa, per evitare di ruminarci sopra a sufficienza da convincermi che contengano la chiave di sblocco del minuto livello successivo, che, in altre parole e in qualche modo, si possa in esse ravvedere l’ammicco di una direzione da intraprendere, la freccia luminosa allusiva dell’ennesimo anonimo viottolo da percorrere.

questo era due giorni orsono, ma un esempio calzante: tre millenni e mezzo fa, a sud del Cairo e a nord di Assuan, nella valle del Nilo, sulla riva occidentale opposta a quella che un tempo era Tebe vennero erette a cuore della necropoli due grandi statue gemelle raffiguranti il faraone Amenophis III, ambedue sedute, le mani sulle ginocchia e lo sguardo volto a est, verso il sole nascente e il fiume, poste a guardia della Casa dei Milioni di Anni, un complesso monolitico che dei faraoni venturi ribadiva la natura divina e la possente, sinché schiacciante regalità. ognuno vede quello che vuole, e tanto sforzo e impegno e schiavi sfracellati, nella rosa delle prospettive possibili della storia, vennero destinati ad intonare un cantico diverso: un cinque lustri prima di Cristo un forte terremoto danneggiò il colosso di settentrione irrorandolo di crepe, facendo sì che al suo sorgere il sole che lo bagnava, scaldandone la pietra, la facesse fischiare e fischiare nel silenzio, rendendo nitido l’impresso che l’alba avesse da piangere a vederla. già l’anno dopo il geografo greco Strabone, in visita in Egitto a seguito d’un prefetto, descrisse scettico l’origine del fenomeno e poco avanti Pausania paragonò il vagito al suono d’una corda d’arpa o lira che si spezza, e in una frase tanto annodata quanto affatto dirimente, già riporta che al faraone delle origini il volgo, con buona pace delle megalomanie dinastiche, aveva già sovrascritto al colosso, per tanto lamento, Memnone, il re d’Etiopia figlio di Titone e della dea dell’alba Eos, che trafitto dalla lancia d’Achille per vendetta conto terzi provocò in seno alla madre tanto di quel lutto che nei secoli venturi se ne stava appunto ancora udendo la eco indubitabile dello schianto e Giulia Balbilla, poetessa amica di Vibia Sabina moglie d’Adriano, quando accompagnò la corte imperiale in sito, per commemorare l’evento compose epigrammi che ancora oggi si possono intravedere incisi sul basamento dei resti confessare che non si sapeva già più che voce divina si stesse levando, ma che certo in quell’alba s’era levata a salutare il re dei re Adriano, che fosse chiaro a chiunque ovunque quanto gli dei l’amassero.

ognuno vede quello che vuole, quello che può sulla base di quanto ha intenzione di credere. da qualche anno si ciarla a dirotto di notizie false come se fossero la causa d’ogni male, quando la radice del problema è forse il dare credito a qualsivoglia tipo o fonte di notizie: la verità si dimostra una proposizione tanto più esile quanto disperatamente la si abbraccia. e tra un milione di anni, quando le onde tremule del forte terremoto che avrà irrorato di crepe le nostre scocche si saranno da lungo tempo dissipate, che importanza avrà mai tutto questo circo, per chi avrà gemuto cosa rammemorando cos’altro? c’è la forte possibilità che la nostra percezione individuale della realtà non sia altro che una fantasia allucinata, febbrile, tanto più tale in funzione della specifica ricerca di senso che a questa solitamente andiamo accompagnando.

sempre negli stessi giorni, leggevo, in un dispaccio dello scorso ottobre scritto da un individuo due decadi più giovane di me che faceva precedere i suoi lemmi dal frontespizio di un quadro antico ritraente san Paolo assorto a redigere epistole al suo desco con tanto di daga poggiata al muro alle sue spalle, fare il punto che ogni post d’un blog (questo genere letterario confuso a cui le masse apparentemente transumanti dai silos in questi giorni vanno ponderando l’attracco) sia in realtà una lunga e complessa stringa di ricerca elaborata allo scopo di scovare, verbatim, genti fascinose per fare sì che dette convoglino frammenti d’interesse alla propria casella della posta: e sembrava pertinente, da più di molti punti di vista, come lo sguardo che esule dal garbo dell’intenzione vaga ramingo in strada e ogni cortesia affettata a esseri estranei o più o meno ritenuti noti e il flehmen e i sospiri e il traffico dei feromoni non faticano ad aderire alla medesima descrizione. e posto che a queste stringhe vi fosse veramente una riposta pronta quanto quella dei motori a cui sovente volgiamo quelle testuali, cos’è che rinverremmo all’altro capo?

devo ribadirmi che è una domanda sincera. la sto ponendo proprio perché ignoro la risposta. e forse sono cieco. o forse: le allucinazioni febbrili generano scrigni di meraviglie. il gioco pare solo finito, anche se i più lo stanno ancora giocando assennati, bruciando patrimoni vieppiù risici e inconsistenti, latrando agli avversari minacce con la mimica del corpo e i quattro fonemi in croce di chi come si parla ha smemorato, pare finito perché nel lasso che ci precede nessuno sembra aver saputo eseguire nuove mosse e ogni iterazione nasce stanca, opera spossata sbuffando fino all’inevitabile chiusa per letalità di tedio. tutte queste frasi vertiginose e vorticitanti per dire sempre la stessa cosa, e di preciso, cosa?

nella vita, trascrivevo qualcuno nei miei appunti all’alba del 25 settembre 2020, siamo creature incoerenti, frammentarie e incomplete dal potenziale immenso. potrebbe tornare utile fare lo sforzo di divenire quanto coerenti sia possibile nella vita, e provare ad articolare le nostre sensazioni e volgerle in linguaggio, parole e simboli. l’anno dopo, in un post che andavo a porre a lapide dal nulla sull’ennesima avventura, riassumevo succinto the lazy fuck reptile brains of most, per dopo righe e righe scrivere in chiusa come along, micro ghost you, there’s plenty of space to roam.

la parola del giorno è passata da sinew a tendril, ma stiamo ancora parlando dalla stessa cosa. dal blocco togli pietra e riveli forma. la soluzione passa per l’aggiungere spazio. tutto quello che riesci a immaginare, quando spegni questo cazzo di cervello.

2022-11-23-T18.01.50

negli anni in cui davo il titolo ai post questo l’avrei chiamato The very thought of you crushes obstructing forces così a secco, e senza sapere neanche che cosa ci avrei scritto dentro. ma sono anni diversi questi: in questi giorni di confino differito scopro che anche lo stallo ha un rombo, e pur riconosciuto a tutto un arbitrio (cassando il false friend più ovvio di agency) l’idea di cosa si finirà per scrivere è comunque vieppiù pallida - soprattutto se ogni ricognizione dell’occhio rimanda accumuli di scartoffie sempre più incomprensibili che attorno alla scrivania s’affastellano a ricordare arcigni che due palle possa a) essere provare a fare qualunque passo e b) essere umani, ma non tanto per l’essere umani, pur vivido, persino sensuoso e irrinunciabile status, quanto l’essere umani nei ventrami d’un complesso sociale che a detto status assegna sì e no lo score degli ingranaggi e le pedine - e dunque, terminato un lavoro non si principia il successivo, scusando il non gesto con l’arrivo prossimo dell’intermedio, di quello che segue appunto più urgente, e si microdosano le vacanze per non ricordare che storicamente se ne sono sempre fatte poche.

nella data misterica del 13 dicembre 2019, a un’ora che non ho riportato e non ho dunque nessun modo di recuperare, cercando di stracciarmi via dal nugolo ruminante inflitto anche dalle assegnazioni poco sopra citate, cadevo probabilmente in ginocchio scrivendo:

questo è vero per ogni individuo sotto il cielo, ma fa testo comunque: una parte di me non è riuscita a crescere, perché pertinentemente alle teorie sciamaniche del recupero degli animi, ogni volta che l’anima prende una botta si stacca un pezzo che resta nell’incantesimo statico e atemporale di quel dolore e dunque non riesce a crescere con l’intero del sistema che lo ha contenuto. il che mi porta a pensare che al di là dell’idea romantica una cerimonia di recupero dell’anima non deve essere esattamente una passeggiata, non tanto per la cerimonia in sé, di cui in ultimo non so nulla, ma per la fase successiva, dove recuperi il pezzettone, ma questi è in future shock. forse uno non ha mai perso nulla, ma parti di sé continuano a vivere inorridite e il sistema va a troie per questo.

ecco, forse oggi serviva soltanto rileggere questo, e l’altro centinaio di righe estratte a caso dall’antro dell’archivio, per cercare di immaginare il resto. e Nettuno allude ai sogni come all’oblio, e forse averlo in casa dell’impiego, come alludevo in comms, allude al fatto che la carriera te la sogni quanto al dato che una delle stesse diversa non è improbabile sognarla nel risveglio. sognare come, poi, a sera d’un giorno principiato obliando in tutta fretta gli animali ignoti che sembravano aver invaso la villa comunale, senza la minima idea di tutta la peripezia che li aveva preceduti.

2022-11-19-T09.10.49

la rete smotta e forse era pure ora. il post che resta in cima settimane è un’istanza la quale valenza passata il tempo ha smarrito, e oggi potrebbe alludere solo al fatto che s’è stati impegnati, ammalati o distratti o forse solo rivolti altrove, perpetui e imbambolati, pregna l’aere di fragranze atempori. e intanto trascorrono eventi clou, ciarle quotidiane e compleanni, e nel tempo si traghetta alla Caronte, tenendo stretto l’obolo che tanto a lungo ci ha lenito lo sguardo.

fuori l’autunno transita all’inverno. in giorni di confino per non sparger pesti anche il tenue fuori appare un eldorado. anni fa, intervistata da El País, quando le si chiese perché scrivesse come scriveva, Bárbara Jacobs rispose a questo punto i libri lineari sono stati tutti scritti, e in tutti i loro stili, le epoche e le lingue sono insormontabili. un altro spunto interessante su ribbonfarm:

Un pensiero più nefasto che mi è sovvenuto è che forse questo senso di atemporalità è più difficile ravvederlo perché di fatto il tempo lo stiamo esaurendo e la nostra civilità mortale è agli sgoccioli. […]

Mi è sovvenuta anche un’idea curiosa, cioè che stiamo annegando in un mare di reboot, di repliche e storie riciclate sugli schermi televisivi e cinematografici per lo stesso motivo per cui le persone in punto di morte vedono la propria vita scorrer loro davanti agli occhi in un baleno. La storia sta finendo.

non sarà così facile disfarsi delle attese interminabili ovunque, ormai arti fantasma d’un processo di perdite incolmabili e irriconoscibili, gesta cieche e quasi completamente robotiche mentre ancora c’è chi tenta di fingere d’averci capito qualcosa e l’erge persino a vessillo della propria espressione. quando invece nessun giardiniere è più possibile perché la giungla ha sbranato ogni micron di quello che contenevano sempre più alte mura.

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eppure, leggo scritto nel catalogo delle opere di Jigme Lingpa, proprio per via della stessa chiarezza la maggioranza di chi si affida alle parole resta confuso da quello che sembrano significare: gli scritti, profondi e intrisi di significato al punto da grondarne, sono composti e assemblati serbando in cuore le necessità e i limiti di discepoli più o meno inconsapevoli di un’epoca degenerata, ma non importa quante volte nei tanghi di giochi del proprio confinato intelletto li si vada con scrupolo ad analizzare, resterà sempre difficile sondare l’abisso di tanta profondità. gli scritti hanno la capacità di condurre gradualmente chiunque allo spazio sconfinato, qualsiasi impressione sia ciò destinato a recare, e si tratta perciò d’evenienze particolarmente rare, che in un futuro non meglio precisato assurgeranno a istruzioni per la pratica.

sistemi e strutture, qui in locale, vanno nel frattempo perdendo i pezzi, essendosi di necessità dovuti riciclare e reinventare di continuo, nell’arco di settimane, cercando di mantenere aspetti e funzionalità più o meno base a valle di motori diversi e sempre comunque lontani da un immaginario ottimale. la storia sembra la stessa delle genealogie che i testi sopra riferiti elencano, senza che forse da nessuna parte vi siano i bagliori che in una fiamma arcobaleno ci riconsegnano all’auspicato dissolversi della forma.

in un altro di questi dedito alla pratica di una divinità combo si legge nel proemio una storia molto toccante:

Proprio come aveva profetizzato il Grande Maestro Padmasambhava, malato e in pericolo di vita ebbi l’intenso sentore che uno spirito damsi coperto di stracci mi andasse lacerando i fianchi con una spada. Dunque, incapace di distogliere lo sguardo dalla forma del Grande Maestro, la mia mente si colmò d’illimitata devozione. Attraversato dalle radianti benedizioni di Padmasambhava, lo spirito damsi s’imbarazzò di quello che stava facendo e colmo di rammarico implorò d’esser perdonato. Alché Padmasambhava m’impartì il sadhana che segue:

eccolo, eccolo il punto: immaginare cancro e miseria e simili anedonici militi e tutto lo stuolo a seguito d’ostacoli capire, colmarsi d’imbarazzo prima e rammarico poi e poi nel chiedere perdono riprogrammare il proprio fungere e apparire ad assolvere scopi infine compassionevoli e sensati.

Il corpo del Guru Rabbioso ammalia eroico e indomito, la voce emana Hayagriva in risa minacciose e inferocite, la mente Garuda di saggezza primeva fluttua placata e compassionevole

Alla divinità che imbriglia forze avverse offro ogni elogio e dono

Al centro del mio cuore attorno a una sillaba hum sul disco d’un sole, le sillabe del mantra ruotano come tizzoni, emettono raggi di luce come lingue di fiamme, emanano garuda come scintille a incenerire le forze avverse, risuonando col raglio del cavallo che fa tremare l’universo intero

Purificando il mondo e chi vi dimora, i raggi di luce si dissolvono in me, che appaio come la divinità, avvinta nel Mahamudra

Se reciti seguendo il tempo, continua per quanto paia ragionevole farlo

Al termine d’ogni sessione, dissolvi ogni cosa come l’hai generata

Questo profondo tesoro della mente ai miei figli del cuore affido

avessero funto come prima le strutture, o non mi fossi avveduto delle fughe di moti dagli ingranaggi, non avrei dedotto nulla del genere nel medesimo quadrante temporale. non sembra più un sospetto che il vero grimorio possa emergere solo dagli scarabocchi a matita sui foglietti volanti, e che a ogni passo della danza stiamo coperti di stracci a brandire spade alla cieca come gli spiriti pentiti.

2022-10-17-T18.33.25

da giorni non si riesce che a riportare negli appunti commenti sempre più elaborati a uno qualsiasi dei lavori in corso, bruciati per altro in tempo record vista una coda incrementale per span e range del cervello che di rimando s’accorciano, e ciò stante la mano compassionevole dell’universo, che in queste ore gioca al quindici come mai, stupendo e commuovendo me e anche le pietre. e all’opposto del guado il dato che tanta pena a malapena andrà a colmare un apice di dieci bulbi per generare in primis altra pena e risultati finali scissi, traslati chissà come per fagocitare altri span e ore al gaudio di sere e notti sulla terra.

a ciò s’è da tempo adusi ed è forse inutile darne conto, eppure stamane, favoleggiando con un amico d’una rete ipotetica di case affittate a rotazione intesa a sfangare l’arcigno esponenziale delle utenze come fosse già distopia aperta, mi sono trovato a farlo in strada, col cane che s’arrabbiava del transito dei simili mentre i bipedi di vomito in groppa ad altri bipedi sembravano averne già sgorgato bastante.

c’è poco sollievo ancora in aere e anche di questa discrepanza s’andrà a congegnare una risoluzione. fido l’ausilio. pari alle più inospitali lettere d’europa la frase che scorre in testa è una sola: come una piena o un vortice da sempre scorre spiazzando quant’è dragabile, irrispettosa e ignara a mo’ di cieche furie dei fenomeni.

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questo, disse l’uomo in costume, è uno dei nostri Titani Viaggiatori. si sta preparando mentalmente a secoli e secoli d’esplorazione dello spazio intergalattico.

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in tarda mattinata a mo’ di coccodrillo Asymptote ha ricacciato fuori una vecchia intervista a lui, condotta da Coccia nel 2021, che si trova anche su YouTube, in francese. si parla pure, a un certo punto, di tenere diari, prendere appunti. Latour dice di aver accumulato 223 taccuini, che pensi e perciò scrivi ed è lo scrivere a farti pensare, che ai suoi allievi diceva sempre che se non scrivi vuol dire che non stai pensando. dei taccuini c’è anche la foto: ma l’asserzione più toccante la reca dicendo che i suoi lavori pubblicati equivalgono probabilmente allo 0,01 per cento di quello che ha scritto. che il mondo che stiamo vivendo derivi in qualche modo da quello che l’ha appena preceduto è un dato incomprensibile.

2022-10-02-T08.51.08

a Talamanca Cioran scriveva che ogni rivoluzione è datata perché si fa con idee passate e sopravvivenze ideologiche. paranoicamente voglio appuntare da giorni che forse è proprio questo il piano: il progetto ultimo di impossibilitare le idee non sgorga tanto dalla volontà di facilitare l’aggiogamento quanto da quella di impedire le rivoluzioni. già oggi qualsiasi movimento o cella dovrebbe pattinare a lungo e in ogni possibile direzione il fiume ghiacciato senza che in vista vi siano foci, sorgenti o emissari, e le idee passate, da tanto sono passate senza dar vita ad altro, assurgono ormai a deboli eco, segnali sempre più flebili ove dei sonar che potrebbero rilevarli ci si è smemorati della forma prima ancora che del funzionamento, della sostanza.

sembra un cogito amaro e come tale dovrebbe serbare le vele spiegate del riscatto, ma non le sento, non le vedo: resistere sembra una preoccupazione più vivida della rivoluzione, mille volte in più ora che le forze che ci oppongono vogliono solo, e ineluttabilmente, piallarci. e c’è sempre il rischio che sia il solito gioco di specchi e che in nuce stia accadendo tutt’altro: ignoto ai più nella meno complessa delle trame e ignoto a ognuno nella raggiera delle restanti.

2022-09-23-T08.02.13

ho dormito abbastanza, il che vuol dire che, forse, non è più il momento di dormire. la penna è stata poggiata e poi ripresa solo a tratti nella carovana di ore seguite. note di lavoro, numeri di telefono, battute smozzicate agli script e pensieri in fuga, disegni di pesci, pitoni, polpi e uccellini: da qualche parte in casa i recipienti vaghi che ne contengono a frotte sono le scatole nere del loa trabaille al centro del cuore. nelle puntate precedenti, mentre scrivo il diario che fuori albeggia, emerge alla mia consapevolezza il concetto di antisingolarità: dove nella singolarità come spettacolarmente intesa l’accelerazione tecnologica permette all’intelligenza artificiale di scavalcare quella umana, nell’antisingolarità

nessuno supera nessuno, le capacità computative di uomini e macchine pattinano a vuoto perché ormai i sistemi sono saturi di merda e non solo non resta più niente da pensare, si è anche smarrita la cognizione di come andrebbe fatto

e non servono neanche verifiche: l’antico assioma del gigo, in virtù della medesima accelerazione, rende da tempo responsi immaginificamente inservibili, e a furia di accelerare le colonne di fiamma delle culture esplose sembrano l’unico vessillo capace di condurci al cielo, lo stesso cielo, comunque, vuoto per miliardi di chilometri e indimorabilmente glaciale.

2022-09-08-T18.05.10

magari invece di aprire il blocco note dovrei riaprire la dashboard e continuare a lavorare, anche se vado avanti dalle tre del mattino dopo tentata morte da parte dell’organismo, questo sconosciuto, questo complesso sistema di farraginosi ammassi e così limpide svettanti scattanti scagliate retratte confisse inabissate raggianti tensioni e scosse elettriche, sovranità sinaptiche, sensi stesi a rete verso un mondo che per giogo del gioco, o gioco del giogo, ho persino dimenticato quanto sia davvero incomprensibile. ma forse quest’oggi a continuare a lavorare non ce la faccio: lo specchio mi rende il portamento dei pulcini e gli occhi sgranati di Bambi, i capelli spettinati perché dopo la doccia della media mane ho pure dimenticato di dargli la forma sensata del casco di banane che storicamente assumevano tutt’altri capelli d’altrui spirti quand’era qualche giorno che la doccia non la vedevano — e poi mi distraggo, copio la riga di codice che esanima le legature perché al carattere corrente mi rompe le palle che la “i” che precede i plurali si trasformi nella prima singolare del supereroe che incede, del supercriminale che sproloquia il piano di conquista destinato alla disfatta per default, perché altrimenti in questo lungo vortice d’eroi naufraghi, bibbie manichee e tavolette sumere, che cosa ci dovremmo raccontare?

di fatto potrei pure venire giù da un momento all’altro come la torre dei tarocchi o un più gioviale castello di carte. lanciare le dita nelle righe prima che l’artrosi ci derubi dell’ultimo sogno smemore d’inaudite esecuzioni automatiche. sogno nella mota perché alla fine ogni virgulto resta ed asfissia, tende e trafora e verso luce arde e corre e sale, come non ci fosse un cazzo di domani o come se, questo domani, fosse soltanto un pensiero di passaggio, e tutto quello che c’è da sapere te l’hanno già detto i pini.

2022-08-31-T12.21.24

eppure al netto delle rivendicazioni spirituali e degli ammicchi contriti dei guru suadenti quello del karma è un concetto semplice, persino basilare: se continui a spargere merda, prima o poi te ne ritroverai circondato.

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dopodiché, raccontai, il mio sogno procede stereo. da un lato il mio tulpa e la tua olosegretaria — ma poi non ricordo come continuava. il testo lo avevo digitato in una delle mie prime mail: era il millenovecentoqualcosa, si aveva poca cognizione di quello che di lì a poco sarebbe accaduto.

ma vale la pena raccontare questa storia? non credo. per il tanto frastuono e la scarsità di segnale ci si è ormai convinti nell’animo che non valga più la pena di raccontare niente. eppure senza racconti la vita sarebbe soffocante, persino impensabile.

in strada a un’amica tra circa quindici ore: “ho thread di conversazione attivi dove da mesi o anni non si fa altro che scambiare pittogrammi, occasionalmente intervallati da scipite righe che non sembrano più capaci di comunicare nulla oltre a un saluto e un rimbrotto”. nessuno sa più quale sia l’argomento di discussione, e proprio come tra le macchine che ci educano il grosso della comunicazione consta di ping e velati comandi. visto lo stato aggravato, acerrimo delle cose, la cosa più sensata sarebbe rimuovere qualsivoglia intento comunicativo dalla narrazione, rimuovere ogni componente comunicativa dall’espressione. sulla pagina wikipedia di John Ashbery si legge che “a dispetto dell’opacità, della complessità postmoderna” dei suoi scritti, il poeta “desiderava che la sua opera fosse accessibile a quanta più gente possibile, che non fosse un dialogo privato con se stesso”. ovviamente, seguendo i due link di riferimento, che rimandano uno a un articolo del New York Times (forse responsabile della fantasiosa interpretazione), comunque sepolto dietro un paywall, e l’altro a uno stralcio di trasmissione radiofonica, si scopre che Ashbery aveva detto tutt’altro:

Scott Simon: Lei ritiene che le sue poesie siano accessibili?

John Ashbery: Beh, mi si dice che non lo sono. Vorrei che fossero accessibili a quanta più gente possibile. E sono… non direi personali… ma parlano dell’isolamento di tutti noi, del nostro intimo, della difficoltà del pensare e del giungere alle conclusioni. Da questo punto di vista sono, almeno credo, accessibili, se qualcuno proprio vuole accedervi.

anche la citazione con la quale voglio fermarmi su questa strada apparentemente senza sbocco, per averla letta riportata in una recensione ove era fatta risalire a un’intervista del 1999 come menzionata da una terza persona, e che sono poi riuscito a rintracciare dopo vari giri di query e galeoni pirata, stavo per riportarla di quarta mano. l’intervistatrice ricorda il passaggio in francese de La Montagna Incantata e ripete quello che aveva da dire Castorp, il protagonista, a proposito: ovvero che in una lingua straniera non doveva sobbarcarsi la responsabilità di quello che diceva, e che, in altre parole, non sarebbe stato in grado di proclamare la sua dichiarazione d’amore in tedesco.

Monika Totten: Ma non aveva problemi a farlo in francese. Questa è una cosa che capita anche a lei?

Yoko Tawada: [ride] Penso che sia un’illusione credere che la madrelingua sia veritiera. La madrelingua è una traduzione di pensieri non-verbali e pre-verbali. Il linguaggio per noi non è innato, è, invece, artificiale e magico. Le persone che preferiscono credere che il linguaggio debba essere identico alle emozioni e ai pensieri umani non gradiscono parlare in lingua straniera. Par loro di dover fingere d’essere qualcun altro, e che parlando una lingua straniera stiano mentendo. Le lingue straniere richiamano la nostra attenzione al fatto che il linguaggio in sé, persino la propria madrelingua, sia una traduzione. Spesso dopo un reading arriva qualcuno a dirmi che non scriverebbe mai letteratura in lingua straniera. Per costui la letteratura è qualcosa di profondo, qualcosa che ha a che fare con l’inconscio. Ma il punto è che non sono le profondità del testo, ma le sue superfici, le lettere, i giochi di parole e il suono delle stesse e i lapsus che hanno qualcosa a che fare con l’inconscio. E queste superfici risaltano di più per chi la lingua in questione non l’ha appresa come madrelingua.

c’è possibilità che non siano solo le regole del gioco a sfuggirci, ma proprio di che gioco si tratti.

2022-08-29-T15.53.23

scrivevo sul diario nell’ultima settimana del 2020:

parlare e condividere porta più spesso che altro all’esacerbarsi delle crisi. non porta soltanto a quello: diciamo che è anche il primo passo dell’incantare e dell’ammaliare. magari non è sempre vero che ogni forma di comunicazione è ipnosi, ma innegabilmente sono poche le volte in cui una forma di comunicazione non è riscontrabile come tale. la cosa della prima frase la andavo pensando ore fa, e ora il pensiero si è fatto stantio e non è più vivo, ma prima lo stavo sviluppando e non mi andava di mettermi subito lì a scriverlo. la prossima volta imparo. parlare e condividere aggiunge quantomeno complessità alla struttura nella quale viene operato. in vita, i.e., ho parlato e condiviso davvero poco, eppure la situazione si è complicata lo stesso. pensa se avessi parlato di più. tutto questo farraginare, poi, perché in quel momento non so che problemi avessi con il comunicare e condividere, e perché prima avevo iniziato a leggere un breve paper sul cedimento strutturale delle cose complesse. in pratica, passano tanti anni e poi pure il resto del mondo si mette a parlare delle cose che pensavi di essere matto a pensare quindici anni prima. anche se quello che più probabilmente accade è che queste cose non eri il solo a pensarle, non lo sei mai stato, ma più passa il tempo e più il mondo diventa assordante, e qualche boomerangata di ritorno ogni tanto tocca che te la becchi. il mondo diventa poi sì assordante, ma pure tu ti metti d’impegno a farti assordare.

è la cosa più strana del mondo rileggere i propri diari, soprattutto quando s’è deciso d’aderire a certe immagini statiche per praticità di forma e libertà di movimento nello spazio. le preoccupazioni sembrano simili e ne emerge dunque che attanagliano l’intero serpente esadimensionale della personcina che sta lì seduta ad annotare e registrare — quello famoso con migliaia di bocche, migliaia di occhi, migliaia di ansimi e sospiri e bestemmie a cristo, l’intero unroll di ogni momento che abbiamo vissuto, stiamo vivendo e ci apprestiamo a vivere. e si scrive in continuazione delle stesse cose per vedere se nel frattempo siano lampeggiate ulteriori epifanie.

nella stessa entry, qualche paragrafo sopra:

ma nell’annuario di meraviglie buddiste di certo le scurrili riflessioni romaniche e baresi che mando a Roberto alle sei del mattino non credo che abbiano posto. dunque potrei […] e darmi un limite di tempo poi per vedere dove sono arrivato. mi piacerebbe dire: tutto il 2021. ma all’idea si allega più di qualche angoscia. facciamo che continuo a provarci e poi ci riaggiorniamo a giugno? giugno uguale estate uguale angoscia. chissà se come per la pratica di Simamukha esiste un livello dove si scavalla completamente anche da questo tipo di tensioni e paranoie prospettiche. ma certo che esiste. bisogna soltanto intuirlo.

dovevo avere tanto tempo a disposizione in quel periodo. le entry sono da lunghe a interminabili. quella citata sinora non è affatto breve, quella del giorno precedente va avanti per pagine e pagine e pagine, e a un punto di questa mi leggo annotare sto scrivendo da troppe ore, e a poco a poco perdo la facoltà di dire quello che voglio dire ma la cosa non sembra fermarmi, tanto che più avanti trascrivo — a differenza di ora senza tradurre — uno stralcio da un’anteprima arrivata per posta da un libro di Jeremy Cooper che sarebbe stato pubblicato di lì a qualche settimana:

Parte delle lettere di mia madre che non ho più le ho stracciate e gettate via pochi secondi dopo averle lette, per quanto mi avevano fatto arrabbiare. Altre sono semplicemente scomparse, forse lasciate da me in una giacca e buttate dagli addetti della tintoria, o abbandonate per sbaglio sul tavolo di un caffè. Anche se le avessi tutte, la storia che racconterebbero sarebbe comunque parziale. Niente è mai completo, tutto sempre una versione. Un’illusione immaginare che ricerche e indagini diligenti, su chiunque e qualsiasi cosa, possano dar luogo all’intero della storia. Non esiste nulla del genere.

di quel libro ho poi finito per non recuperarne una copia, gesto che andrò a compiere, forse, e assieme a decine di altri, non appena i venti d’alta quota saranno più propizi agli acquisti, anche se poi in the forthcoming apocalypse etc. e al ricercare il benvolere dei venti si dovrebbe accompagnare l’assemblaggio di vele solari come congegni esoterici.

la grande confusione mentale di questi giorni, e il tempo in buona parte impiegato a pensare e ripensare come distribuire e razionalizzare il mio output, mentre poi di fatto se perdo tempo a pensare a queste cose di output ne produco ben poco. la grande voglia di ricercare la serenità a ogni costo, quando di presupposti per la serenità non ce ne sono molti, e il dubbio conseguente di starci volendo soltanto mettere una toppa sopra, timidi sorrisi e gesta normali quando a tratti una parte di me ripete e ripete che dovrei urlare.

ma urlare cosa, poi. ho pensato che si può fare anche a meno degli asterischi. e scrivere di cose incomprensibili dando l’impressione di star compilando un saggio, interferendolo e intervallandolo con una copia statica e anastatica di un flusso di coscienza fermo nel tempo, visto che il tempo non è un fiume ma un cristallo superdenso iperdimensionale. e giù a roboare con concetti che sono sempre gli stessi, i paragrafi soltanto in apparenza a dividere pensieri che in realtà stanno lì soltanto a confabulare sempre la stessa cosa.

da domani si torna a scrivere col marker a scalpello.

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non so se sarebbe sensato avere un registro accurato e accessibile delle parole altrui che annoto ogni giorno. si tratta probabilmente di troppo lavoro. da anni gli sfalci s’ammassano a mucchi e se volgo lo sguardo, tra gialle cartelle e bianche pile, esala inattaccabile l’evidenza che un ordine sia impossibile.

questo però lo annoto, quantomeno per non perderlo: l’incipit di un libro che non credo vedrà una versione italiana. non c’era nessuna pagina dalla quale potessi copiarlo, perciò l’ho tradotto:

Ti sei mai accorto che quando siamo vicini all’acqua voglio scopare? Ricordi a Snowdonia? Quel fiume ghiacciato? Io che mi spogliavo e dispiegavo nell’oblio mentre tu t’avvizzivi e aspettavi che tutto fosse finito. Ero così estasiata che mi ci sono voluti anni per accorgermi che non eri proprio lì con me.

sullo stesso sito, in un’intervista, l’autrice:

ma ho avuto un breve istante di paura poco prima che venisse pubblicato, quand’ho pensato, “Oh, Dio, mi vedranno tutti nuda!”

a onor del vero qualsiasi registro avrebbe senso compiuto solo annotando anche come s’è arrivati al brandello in questione, le proprie pregne considerazioni e succedanei rivoli. ma per questa emenda quanto scritto sopra vale almeno il triplo. e la somma interagente di tanto sfrigolio sinaptico e assalto di fotoni ammonta ovunque a zero.

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forse quel giorno l’intervista non aveva nessuna voglia di farla. in genere rispondeva sempre con agio innaturale, con dileggiata ciarla alle domande che le venivano poste, un po’ come se conoscesse bene chi l’andava esaminando e ogni ammicco, ogni riferimento, trovasse sempre fertile mota all’atterraggio. forse non le andava e basta: la temperatura troppo alta per quelle latitudini — per non parlare di quel momento dell’anno — per altro resa più grave e inimicale dalla litania dei notiziari che di volta in volta l’appellavano con sintagmi sempre più nefasti e che ormai, dopo pandemie e guerre e aumenti e altre pandemie, altri aumenti e restrizioni e umori generali sempre più esili e volubili e tutta la corolla del crash della distopia nella realtà consensuale, sembrava generare un’orticaria istantanea che di rimando toglieva il minimo di fiato che aveva già fatto fatica a conservare fluido. le domande sui generis, poi, pregne d’un entusiasmo studentesco e giovanile che in tema d’orticaria adduceva solo insulto all’ingiuria, non fossero bastate le difficoltà di connessione iniziali e ogni bega possibile della telepresenza, erano state la goccia che aveva fatto straripare la diga. a volte, però, bisogna infilarsi in contesti impossibili per dare il meglio: e dopo aver negato una sinossi del proprio tomo fresco di stampa sulla base del fatto di non sapere mai quello che aveva scritto se non anni e anni dopo, d’aver dunque rimandato per quella l’intervistatrice alla quarta di copertina, alla domanda seguente rispose nel più perfetto, sensato e inespugnabile dei modi:

e per quanto riguarda il libro, l’ho scritto perché scrivo

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e Dror Poleg, storico dell’economia che si occupa delle conseguenze dei sistemi economici sul vissuto degli individui, ha pubblicato un articolo che apre con queste parole:

la tecnologia non vuole rimpiazzarti. la tecnologia vuole renderti intercambiabile. passiamo tanto tempo a preoccuparci di un futuro in cui non ci sarà bisogno di lavorare. dovremmo invece preoccuparci di un futuro in cui avremo ancora bisogno di lavorare, ma in cambio di questo lavoro otterremo sempre meno.

un futuro?

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la collana, che leggo sul sito essere all’ottavo anno d’attività, si prefigge di pubblicare il meglio della poesia contemporanea: sono libricini smilzi e maneggevoli, con copertine ogni volta di colori diversi stringate e minimali, che riportano solo il nome dell’autrice o dell’autore oltre al titolo e al logo dell’editore, che nel volume blu mezzanotte che ho tra le mani è d’un grigio e un nero così tenui che a malapena si distingue in basso a destra.

non deve costare molto stamparli, penso: la casa editrice è figlia d’una università albionica, eppure dal colophon leggo che il volumetto, per arrivare a casa mia nel culo dell’italia centrale, è stato stampato negli stati uniti — in virginia, posto che la mia query successiva abbia ricevuto risposta adeguata — da lì immagino risbarellato in nave in gran bretagna e proceduto oltre, su ruota, ai vari hub e depositi lungo il tragitto verso il proprio ignoto destino.

è da un po’ che vado pensando a questi oggetti che vagano da un capo all’altro del pianeta, dentro container ipoaerobici e bui, come deportati. qualche settimana fa ho letto, e provato a skippare un saliente recap a 81x, di Logistics, documentario girato da due giovani artisti svedesi che traccia 1:1 e a ritroso il percorso di un oggetto insulso, un contapassi di plastica da due lire, dal punto vendita di stoccolma alla fabbrica di shenzhen. le riprese vanno avanti per 857 ore e constano perlopiù di camere fisse su cruscotti e navi mercantili, e per buona parte della durata non si fa altro che vedere container guadare il mare.

inizio a scrivere queste cose senza avere ben chiaro in mente dove voglio arrivare. le considerazioni si alzano intorno forse non a sciami ma certo a volute, lente, pesanti, difficilmente scrutabili ma chiaramente soffocanti, come combustioni d’incensi pesanti, ognuna d’esse tuttavia ferocemente banale: la vastità del pianeta contro la pochezza della migrazione intesa, il margine di profitto contro lo smemorarsi d’esiti più sensati, la passione dell’interposto esistere tramite schermi ove porta persino a inseguire scipiti oggetti per decine di giorni e miglia — un manicheismo sciatto che fa più rabbia che senso, che pur non s’estirpa per rispetto dell’adolescente invivibile e invissuto che ancora oggi al nostro desco, a dedurlo dal puzzo di caprone, più o meno ridanciano e spavaldo s’assetta. mille considerazioni inutili, appunto, inutili proprio come il non servire a niente.

difese dai propri congegni, è chiaro, serve ravvederne altrove, e lasciare che nel frattempo la fiamma divampi e bruci ancora: a corto di comburente un giorno riusciremo anche a respirare.

2022-08-25-T08.34.35

tanto per partire come al solito dal nulla dell’improvviso, “confermo la pioggia” potrebbe essere un buon titolo per un carteggio tra due individui a tema prevalentemente esoterico — tanto perché sotto sotto, a dispetto di detour artistici o puramente funzionali, sempre lì si va a parare — un buon titolo perché in realtà tanto più semplici e verificabili queste conferme e prima se ne esce.

ora il problema è che in questo giorno ed epoca, per chi alberga tra le proprie tare mentali un minimo di considerazione tipografica, riportare a stampa questo fantomatico carteggio, uno snodo fantasmagorico diffuso a rivoli in una quantità di canali — mail e allegati, messaggistica istantanea, schermate commentate a colpi di walkie-talkie, a4 da 80gr/mq stampati dagli archivi e ripiegati come origami con annotazioni a matita meccanica e marker indelebili, stralci condivisi in nube e mai più rievocati — diventa una bega non da poco, la tipica problematica tecnica che per impossibilità di venir quagliata finisce per impedire, appunto, quella manifestazione che in ultimo anche la pioggia del titolo andava più o meno oscuramente ad adombrare. Iphgenia Baal, che pur d’altro mestiere se ben ricordo impagina o ha impaginato fanzine, riviste e tomi, in quel Man Hating Psycho che credo d’aver letto a inizio anno o al termine del precedente, questi problemi non pare esserseli fatti, tanto che il primo capitolo consta del dump integrale d’un estemporaneo gruppo WhatsApp, dalla confusa origine all’inevitabile disgregazione, messaggi e timestamp del server inclusi, che proprio in virtù della sua riconosciuta forma evoca corollariamente e al di là del contenuto uno scoramento così noto ai più che nella nostra insula aurea non ci si affatica a etichettare universale. la Baal il dilemma di quagliare una simile cronaca lo aveva già risolto qualche anno fa, e più che forma, quaglia e selezione, il vero problema è del verbatim che ci attende cedendo il raduno e l’edizione ai posteri, la poca precisione che le parti trasmesse a scapicollo per poca lucidità mentale delle stazioni sono compulse a veicolare. potevo essere più preciso, dunque, stamane, in fase di carteggio, e dire che i sensi meno preponderanti sono quelli che in fase di rievocazione intessono gli scenari più ipnotici, perché diamine, tali sono in fase di evocazione. sempre e ovunque, in summa, tantissima simpatia nell’aria.

2022-08-25-T07.51.29

pilota di questa carcassa

2022-08-22-T19.06.42

in Cartas, sueños y otros textos compare una ricetta tratta dagli appunti della pittrice che dettaglia un metodo para provocar sueños eróticos che come nei migliori grimori è — sarcasticamente, va annotato — complicatissimo. può non sembrare uno scintillante consiglio esoterico ma in genere, per scatenare sogni erotici, basta attendere qualche giorno.

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spiega Siri Hustvedt in un’intervista letta ieri:

Ogni libro, dipinto o brano musicale prende vita nel suo lettore, spettatore o ascoltatore, ed è animato dai suoi responsi innati — dai pensieri, ma anche dalle sensazioni e dalle emozioni. Quando scrivo un romanzo, sento i protagonisti dentro di me come se fossero parte della mia memoria, ma quando parlano sulla pagina, resto spesso sorpresa da quello che dicono. Comporre una frase significa soppesarla contro un senso di giusto e sbagliato. Talvolta le parole escono ‘giuste’. Altre volte resto bloccata — le parole sembrano ‘sbagliate’ — ma se mi alzo e mi muovo, la frase compare. C’è una forte componente motoria della scrittura che viene comunicata al lettore e da questi percepita. La frase, ma anche il libro nel suo insieme, deve avere una costruzione ritmica, deve camminare, correre, balzare e capitombolare. La suspense genera frasi in staccato, la meditazione genera continuum in legato, e il lettore sente questa musica assieme alla semantica. Ma ogni narrazione esclude tanto quanto include. Leo sa che la stessa storia può essere narrata in tanti modi diversi da punti di vista differenti, ma sa anche che il suo bisogno di raccontarla è una necessità di colmare quello che con le parole si perde. E ogni romanzo è scritto per qualcun altro, un lettore immaginario. Il mio capisce tutte le battute, comprende ogni riferimento e dirime ogni sarcasmo.

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altro segnale della direzione che avrebbero preso le cose: atelier di mimetismo (circa 1984/1985), congegnato in seno a un campo scout estivo allo scopo di restare appizzati nelle selve a fumare indisturbati, più generalmente a essere invisibili. l’orbitalità quantomeno come predestinazione, quando non direttamente destino.

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ormai da qualche tempo, disse, opero all’intersezione tra neuroscienze e cucina intuitiva, con un orientamento morale che solo di recente mi sono visto definire caotico neutrale. morale è una parola sconveniente, che sembra alludere a guitte deduzioni nascoste come spie nelle militi fila del tutt’altro, una branca della messaggistica dove non faccio altro che presentarti una mia idea, tanto la sento risuonare forte tra le pareti delle membrane, per vedere se riesce ad assordare anche te e tutti quelli a cui avrai grazia, pur con certa incoscienza, di riferirla. sembra alludere, sì, e non è quello che intendo: immagino più un risico diagramma che descrive opinabili potenzialità di spostamento da sovraimprimere al dato punto della mappa estemporaneamente occupato.

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e sono riuscito di nuovo ad arrivare alle otto senza stilare alcuno dei righi intesi: qualche minuto dopo le sette, tra volute e pallide luci, cacche di cane su breccia e tumidi aghi di pino, tubanti colonie di colombi e primi schiocchi del macchinario dei piani soprastanti che s’avviava al nuovo giorno, aveva preso forma affidabilmente nitida una critica alle gabbie sempre più circoscritte ove i calcoli vanno a costringere le esternazioni — un rantolo in realtà, uno di sparuti ritornelli così tanto intonati da poterli insignire tormentoni — ma poi da un macchinario all’altro, e vittima della medesima meccanica, in puro stupor daemonis anche la critica è scivolata sullo sfondo per procedere in una selva sempre più oscura e anaerobica.

la partita era iniziata in realtà già ieri: al principio del meriggio scoprivo di non essere in grado di lavorare, non per la festa comandata in atto ma per aver sentito la mente scarica e brama indi di nutrirla. la mossa sbagliata è stata recuperare dai recessi altrettanto anaerobici d’un mobile uno di n dischi rigidi sulle piste, sicuro, di qualche spettro, e d’essermi a seguito dileggiato a scrutare cartelle dove a occhio erano fissate copie d’istantanee raccolte con le lenti misere di dispositivi mobili che ormai non esistono più: in una di queste, per motivi non più noti, avevo apparentemente ritratto una pagina di diario che riportava una sbiadita allegoria d’ippodromi e tempi infinitesimali di reazioni involontarie che situava il protagonista, tanto per cambiare, in una qualche impossibilità di sorta a stringere i denti e congegnare altre possibilità di risoluzione. è stato lì che mi sono reso conto d’averli persi di vista, i diari di quell’epoca, da più di qualche anno, e nelle pause dal lavoro che inesorabile come lancia di minuti è poi, festa comandata o meno, seguito, sono andato cercando qua e là nei pertugi non così innumerevoli della risica dimora, sulle prime e seconde senza successo e con crescente smarrimento e sentore di disfatta, per poi alla fine, ormai a sera, messe a tacere le voci schiamazzanti che vado sottotitolando per mangiare, con un gesto secco di quattro o cinque mobili spostati per dare adito a uno sportello di schiudersi, di quei diari ne ho ritrovata una pila forse parziale ma tuttavia cospicua, una torre di blocchi ad anelli, le loro pagine fronte e retro coperte da bulerías d’inchiostri di bic a vari stadi di sbiaditura, i brevi lassi di mesi registrati riportati in da/a tremuli sulle copertine.

quelli che restano fermi non si rendono conto delle catene, mi scorre davanti nell’epigrafe di un tumblr a inizio meriggio. la frase è attribuita a Rosa Luxembourg, ma un centro studi marxista tedesco ne sconfessa la maternità, dicendo che non figura in nessun testo, tranne forse, come indica un redattore in postilla, in una delle tante lettere che non sono mai state rese pubbliche.

l’idea delle lettere rese pubbliche.

sopra la pila di diari spesse buste cartonate di formati difformi, colma ognuna di foto stampate da varie fasi d’una lancinante seduzione della luce che alla fine non ho nessuna intenzione di scrollarmi di dosso. foto di modelle, foto dei cani, foto di mia moglie. e poi cavalli e ombre e altri cani, gente rubata in strada e altra ritratta mentre stava lì a guardarmi per altri motivi.

e niente: anche qui non si raggiunge un punto. dalla prima riga a questa sono trascorse dodici ore di cervello frullo e lavoro tirato coi denti perché non c’era verso di usare creanza e stile. le poche notizie che ho letto non avevano nulla a che fare con le notizie e mi raccontavano di sperequazioni e fulgori e infine di divari sempre più incolmabili. ma anche questo è un trito ritornello, e forse si fa in tempo ancora a cantarlo domani.

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nel vernacolo che più e più ancestralmente mi pervade si definiscono de coccio gli individui particolarmente ostinati e meno propensi al tener conto di necessità e vezzi altrui. nel tardo pomeriggio di ieri mi sentivo motivato a mettere nero su bianco questo dato come premessa a una recondita e sotterranea, privata aspirazione al coccio, contrapposta al peso e alla basilare sconvenienza d’una pratica empatica che il più delle volte, statisticamente, sembra aver condotto di preferenza in nessun luogo per tramite d’una tortuosità che forse ci si poteva anche risparmiare.

stamane, tuttavia, col fumo delle prime sigarette che s’andava a intrecciare in giardino alle prime luci del giorno, tipo risulta d’un principiante sobbollire è emersa alla consapevolezza o quantomeno alla mera considerazione un’altra possibile sfumatura del coccio — ovvero, quella particolare incapacità d’aver compreso a un punto del passato la gittata d’un proprio range, avendo così perso occasione d’eventi corollari che nessun incantesimo retroattivo, forse, potrà oggi rendere di nuovo verificabili. c’è adombro d’artrite nelle dita che infilzano queste righe di parole ma nessun rammarico: era solo per dire che sembra inutile oggi aspirare al coccio perché s’è triti d’esser bimbi di carne e ossa, quando a un’analisi appena più accorta emerge dolentemente che è proprio nelle file della ceramica che s’è sovente vissuti, o tra i cristalli, sugli scaffali delle condizioni iniziali e ignari, in affatto presaghe attese della maldestria taurina che, emergendo come proprio dai ranghi della classe magica di voluminose e inesplicabili fiere fuori contesto, in ultimo ridurrà tutto in frantumi.

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sembra impossibile eludere da questa prassi medievale per cui al potere si paventano entità via via più mostruose e decerebri, come se da un lato fosse plausibile l’alba d’una apocalisse e dall’altro, anzi che togliersi dalle mazzate, con una scrollatina di spalle alla storia le medesime s’andassero affrettando a prender posto per salvaguardare il poco prima d’alluvione, grande gelo o vuoto nudo abisso. le notizie non avranno nulla a che fare con la realtà, ma occupano slot nel cogito dei più, che cogita di rimando scene sempre più soffocanti, nelle quali poi anche a noi storicamente orbitali, quando non coartatamente orbitanti, tocca vivere con smisurata pena.

la notte dormo tra poco e nulla perché ormai il caldo ha rotto il cazzo: le due gocce di ier l’altro poco hanno potuto, e la rimonta non ha atteso troppo, e siamo da capo a dodici, dove i dodici che al capo succedono, per v. sopra e raccolto vaticinio dei cieli, nessuno pur pronosticando sa che configurazione assumeranno. dormo poco e divago, un poco allucino e il resto seguo incipit solo di rado toccando il fondo dei capitoli iniziali. i testi più avvincenti annidano troppa angoscia, i meno non v’è motivo d’insisterli o perpetrarli, le righe che non ammettono d’aver finto sgravano nozioni di cui per carenza di spazio possiamo per ora farne a meno, e gli ami appunto ineludibili chissà chi è che riesce ancora a scagliarli.

oggi, nei cieli, addirittura, solo sparuti rombi, così lontani tra loro che di volta in volta li si poteva scambiare col trasloco delle scuole dirimpetto o il transito dei velivoli di linea.

sembra che gli arrembaggi si possano evitare soltanto navigando sin dove nessuno può raggiungerti.

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poi una cosa confusa sul cielo che andava avanti ore a rombare senza che nulla di rimando schiantasse a terra irrìgo: le dita che non trovano più la giusta destinazione sulla scacchiera delle lettere, e a ogni lemma di senso compiuto precede un grumo di bradi dittonghi e impronunciabili particole. nell’assedio che procede con le unghie già troppo lunghe a minacciare i margini ci si riduce all’ultimo istante a lasciare una traccia che pur girando da ore nei bassifondi delle meningi, quando si esprime sembra ancora più confusa, insensata.

tra cielo che rombava e ancor’arida terra s’intravedeva ammicco d’un pattuito amplesso, dove allo strascico ineludibile d’una tensione ai vivi nota succede lo sgorgo d’un rilascio denso atteso giorni, settimane, mesi: icore di nude pietre e bulico di geosmine assise, come predoni pronte a far ratto di gole e strangolando infine, come se il dramma ultimo dell’universo si nascondesse davvero ovunque, oppure vounque, oppure proprio quello il dunque: fare domani una cosa sana di mente. una. almeno una. per non smarrire il vezzo.

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sapevo di foglie secche, lacero, gli occhi esplosi

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poi ore — persino un giorno — dopo, volevo scrivere che in quest’assedio sembra pressoché impossibile ritenere un’anche singola stilla della propria concentrazione: l’attenzione torna appunto al suo ancestrale ondivagare, insaziabile, inarrestata, e bisogna convincersi che solo un punto su potenziali milioni la valga per portare a termine o solo verso il compimento alcunché.

anche qui, poi, ci si è rifatti più o meno inconsciamente, incoscienti, alla vertigine sin dalle pietre angolari: ci si arresta a contemplare un frammento di presente ma si precipita subito a capofitto nel turchino dei trascorsi fino al momento inevitabile dello schianto, che al pari delle peggiori risoluzioni narrative, potrebbe pure coincidere con un risveglio.

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dal rogo dell’estate la giovinezza esala a fumi e ottunde

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non capita sovente di prepararsi a un debutto. il tesauro elenca scipiti commiato, congedo e addio alle scene al suo antipode, ma a questo punto dell’orbita s’è più propensi a ravvedervi un forbito permanere eseguendo, con la speranza d’aver idea anche già pallida del demone che ci ha portati a calcare la scena e dei suoi oscillanti grappoli di moti.

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la cittadella era in qualche modo simile a questa che andiamo calcando da una decina di giorni: piccola, costiera, popolata e vacanziera. diverso il suo assetto nello spazio: si sviluppava perpendicolarmente sulla fascia terminale d’una serie di dirupi, e proprio in groppa a questi passavamo del tempo a farci foto a vicenda, cane compreso — nel senso che anche lui fotografava noi, oltre a farsi fotografare in pose sceme come già noi stavamo facendo. scesi poi giù vicino alla riva, che era una lunga cordata di scogli e muraglie di cemento all’altezza della caviglia, mangiando forse un gelato il papà d’una famigliola al tavolo vicino annuncia ai figli che in mare c’è una balena, che tuttavia tra le onde altissime e inferocite non riesco a scorgere. le stesse onde a ogni arrivo a terraferma schiantano oltre il basso muricciolo e tutti i marciapiedi dello stretto porticato sono fradici d’acqua salmastra. a un certo punto un’onda, neanche troppo più grande delle altre, poco lontano dalla gelateria e in coincidenza d’un angolo che dava inizio a un altro lungo tratto di porticato, riversa sul marciapiede una creatura molto simile a una foca, anche se più grande, poco assestata nella forma che volge all’umanoide, e ferita, sia a un occhio che alla coda, in parte mangiata via. a nessuno sembra importare molto. ci agitiamo, cerchiamo di richiamare l’attenzione della gente che cammina in ciabatte e la nota soltanto per schivarne la sagoma e proseguire la passeggiata. la creatura sta palesemente soffrendo, anche se penso che le onde che continuano a scrosciarle addosso, i quali schizzi non mancano di imperlare le cartoline esposte in uno stand a ridosso dell’angolo, fanno in modo almeno di tenerla idratata. non è chiaro se respiri aria o acqua. guardarla negli occhi reca una tristezza insostenibile, come se quel nero emanasse o anche solo rispecchiasse tutta la disperazione e il dolore del cosmo. faccio per avvicinarmi ulteriormente ma,

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sto scoprendo di non riuscire a fare molto in questi giorni: sveglie all’alba, a sole già alto, nel cuore della notte causa soliti sogni di merda — e sole sulla pelle nuda, sigarette e caffè sotto al patio anaerobico, la poca aria che arde dalle cicale ai grilli senza un attimo di tregua. lavoro non ne arriva e il burnout è reale. a tratti il sospetto che questa pagina sia un remake di gone outside.

sarebbe bello poter scrivere dilaga l’anarchia. ma questo non accade. quello che più che dilagare sembra ormai esser sin troppo dilagato è questo piglio d’obliviousness che vedo avvinto ai simili, che peraltro per nessun motivo mi sento compulso a biasimare. ognuno fa quello che può, alla fine, in totale assenza d’indizi e spesso privo d’una anche remotamente affidabile, o solo tentativamente sensata, capacità d’astrazione. in girum imus nocte perché la notte è dilagata ovunque.

e il libraio autonomo dalle mie parti che un giorno tanti anni fa quel palindromo lo tradusse ‘nnamo ‘n giro de notte e damo foco a tutto.

sulla spiaggia stamane s’era fermata a riva davanti a noi una coppia di vecchini molto anziani. palesi, pressoché inignorabili i segni d’una tenera devastazione temporale. sembrava irrispettoso fotografarli ma non si poteva non farlo. la lente ai primi scatti era appannata da qualcosa di oleoso e sulle immagini è rimasta una patina di foschia sognante, un filtro glamour completamente inadeguato e tuttavia perfetto, pregnante, come ricordarsi di sé un milione di iterazioni dopo, incerti e avviluppati (ibid.) dall’alzheimer.

Fluttuazioni grandi sarebbero quasi inconcepibilmente rare, ma possibili per le enormi dimensioni dell’universo e all’idea che siamo risultato di queste fluttuazioni, ci sarebbe un “effetto di selezione”: osserviamo questo universo molto improbabile perché abbiamo bisogno di condizioni improbabili per sorgere.

però appunto, il remake di gone outside anche no, considerando che le eco di quella fase se la staranno ancora fischiando in coda al tinnito e che non ravvedo nei meandri dei pertugi laminari un’anche sparuta stilla d’anelar convalescenza.

anelar tutt’altro, invece, quello è poco e certo. e qui la tentazione è d’impilare righe su righe d’ulteriori apparenti insensatezze, più livide di quelle che hanno preceduto. di foto dei vecchini ne metterò su un’altra, l’ultima scattata, quando esfiltrano dal range della mia visione e procedono verso il resto del loro giorno, tenendosi per mano. oppure no, non metto su neanche quella. ne lascio l’ecfrasi a tagliola cognitiva e buona la prima.

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la cosa più sensata, va detto, è prendere e spegnerlo, questo computer, toglierlo almeno per qualche giorno — per questi giorni — dalla postazione temporanea sul piedistallo di quattro paperback tedeschi lasciati indietro dagli ospiti precedenti, e arrendersi al pensiero che senza necessità immanente di rendere si può anche evitare di provare a produrre. l’afa è asfissiante e la piscina emozionale, tanto è cheta la tensione in superficie, potrebbe anche essere piena di candiru. prima, forse un’ora fa, mentre mi ustionavo sul sundeck d’emergenza, udivo tra le grida dell’acufene e il frinire di cicale il distinguibilissimo rombo d’un temporale in lontananza. con gli occhi mi sono messo a scrutare l’estensione dell’orizzonte, che dopo una cinquantina di ore ancora non sono riuscito a capire verso che nodo cardinale volga, ma non ho visto indizio di nulla del genere. poi, finita la sigaretta, via dentro, nel clima differito della refrigerazione d’ambiente, ad accucciare le dita sulla tastiera mentre i polsi si spaccano contro l’orlo ligneo del tavolo di piastrelle.

la cosa peggiore, o migliore, è che sembra sempre esserci un’altra possibilità: nel bene o nel male, e grazie al cielo o ai venti d’alta quota, raggiungiamo sempre posizioni parziali, da dove è necessario fare altri passi, e chissà se mai sapremo quanti, per migliorare, eccellere o finire di distruggere. questo non perché siamo una specie pavida: solo perché, invece, come tutte le altre che ci coesistono siamo una specie limitata. quelle che ci coesistono sono probabilmente le stesse che ci sopravvivono. sarebbe orribile, impensabile il contrario.

i grafici di bbc world news ci restituiscono una europa in buona parte sbranata dalle fiamme. annotarlo è importante non per rifare Jahrestage, ma per tener traccia in futuro di cos’è che andava informando, arricchendo o mortificando lo scenario psichico al rediger della cronaca, di cosa si nutriva la paura per acquistare forza e chiedere il suo posto al fianco delle altre emozioni, chiedere d’essere riconosciuta alla pari — certo non l’opera più semplice nel cranio di qualcuno cresciuto estrapolando un’etica dal poco che capiva dei supereroi.

It is 18,524 days from the start date to the current date. Or 50 years, 8 months, 19 days. Or 608 months, 19 days. 2646 weeks and 2 days.

gabbiani, gazze, qualche misteriosa cincia e una congrega di passerotti che per motivi ignoti ha abbandonato in massa e con giulivo sciabordìo l’ulivo alle mie spalle come se stesse arrivando l’uragano. il rapace notturno di ieri notte l’ho visto con la coda dell’occhio e solo troppo tardi e per quanto andava veloce non sono neanche riuscito a identificarlo. marte, giove, la luna su mercurio e poi saturno erano disposti lungo lo stesso arco, perlomeno al centro di quell’ora dove il cervello ancora non ci permetteva di dormire. con una fionda avrei potuto distruggere le luci perimetrali che impedivano al nero d’esser tale e far da giusta cornice a quelle luci di vecchie foto. avrei potuto significa avrei dovuto e non si esclude che a un punto del prossimo futuro avrò dovuto e pace. vega si distingueva a occhio nudo rimandando in onda il film dell’unica volta che la vidi al telescopio. le stelle hanno tutte fretta, ha detto Paola. non aveva torto. ogni sorta d’esplosive fusioni, fugaci estemporanee allucinazioni in inafferrabili sequenze di lampi, sgorgo e manifestarsi di metalli pesanti dal nulla.

questa zona non è coperta dalla rete cellulare e per definizione siamo irraggiungibili quanto le stelle. quale rendere, allora, quale produrre? poste distanza e lontananza a unico bossolo, ogni uomo e ogni donna è una supernova. ogni creatura. non è detto che serva fare la fine delle aragoste. l’unica velocità che conta è quella del pensiero.

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con la finestra di calibre aperta a pieno schermo, il consueto dilemma di che scagliare nel lettore. a mettere troppa roba si rischia di fare nella propria testa collezione d’incipit e confusione di riferimenti, a metterne poca di non trovare quello che si vuole in un momento che giocoforza dislocato nel futuro non può essere anticipatamente meglio identificato o determinato.

secondo me, perlomeno in questo momento, è inopportuno elencare cosa vado inserendo.

una indagine che vorrei almeno principiare: una valutazione degli esiti pandemici che attraversano, metabolizzanti o tentativamente metabolizzati, il genere dell’autofiction. ce l’ho praticamente quasi a portata di mano (v. la finestra di calibre poche righe sopra) e devo solo iniziare a leggere per crearmi una prima idea. dubito che lo farò. a ogni piè sospinto e margine della visione si vanno annidando mansioni da svolgere, la quale più opportuna ora è pregressa ormai da tempo. bisogna darsi da fare. dove quel bisogna è un po’ la fonte dei problemi.

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in epigrafe a Exquisite Cadavers di Meena Kandasamy trovo una citazione di M. NourbeSe Philip che dice:

The purpose of avant-garde writing for a writer of colour is to prove you are human.

fuori contesto, ma potrebbe essere lo scopo, o almeno un proposito, d’ogni scrittura quello di provare a dimostrare, o anche solo ricordare, la propria umanità. si possono vergare migliaia di pagine partendo da questo semplice assunto, dal moto oceanico dell’umanità ancorché dai rivoli capillari dell’identità. poi non è detto che sia opera semplice. la Kandasamy di cui sopra il suo libro lo compila in due colonne: in quella che sembra la principale si muove una giovane coppia londinese di finzione, e in quella a margine, corpo minuto, caratteri variabili e inchiostro più chiaro, viene annotata la cronaca della stesura della prima.

No one treats us as writers, only as diarists who survived.

(forse) nel 2015, mentre ricomponevo un’edizione cartacea, poi stampata in pochissime copie — forse sette — di tsunami notes, man mano che affioravano ricordi, considerazioni e sdegnati addenda, ho ponderato seriamente l’idea di compilare note su note relative a quegli scritti derelitti per dare poi alle stampe quelle sole note senza il corpus che andavano a commentare. fantasma d’un fantasma etc. passati tanti anni, e vieppiù intensi, l’operazione è simile: una radiocronaca alla quale si accede in media res, privi del contesto che la informa. lettura come naufragio.

poi più tardi:

The author is grumbling that this very special purpose device doesn’t have quite the feature set he wants. The era of writing on paper was backed by a large human staff of typists, rewriters, fact-checkers, editors, and Linotype operators. Everything was re-keyed several times before it reached print. It’s not about nostalgia for typewriters. It’s about nostalgia for servants.

l’unica spiegazione plausibile per ora è che come specie ci siamo smarriti in idiozie, e che quasi nessun gioco di dadi valga più lo straccio della tunica insanguinata. non ho particolare piacere a scrivere queste frasi funeste, e pertanto dovrei smetterla.

2022-07-15-T17.59.19

in un commento su hacker news ho appena letto la frase this is just a side effect of hypercapitalism at play: non importa neanche molto a cosa fosse riferito. quasi tutto quello che ci circonda è un effetto collaterale del medesimo e dei suoi corollari, che come in un romanzetto distopico a questo punto assurgono a una moltitudine. si sono visti negli ultimi giorni ed ore sempre più individui abbandonare le navi per togliersi dalle mazzate, ma a nessuno degli spettatori sembra mai sovvenire che questa possibilità di abbandono sia un grado di rimozione (dai problemi immediati come dalla realtà consensuale) ormai paragonabile alla regalità, alla sovranità. che cazzo cercano ancora queste persone? ma non ricordano nulla dei libri di storia? le teste dei sovrani, nei momenti di maggior baldanzoso tripudio, tendono sovente a rotolare a terra rimosse dal corpo. chissà se come grado di rimozione può bastare.

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devo fermarmi, è perfetto così. sufficientemente anonimo, perlomeno a uno sguardo esterno, cui appare praticamente devitalizzato, anche se sotto scialacqua fumante non poco magma. e per il resto si tratta soltanto di brevi note. ieri ho fatto persino un tentativo di integrarle nell’archivio privato, ma qualcosa è andato storto, nel senso che per farlo mi sono reso conto che la versione corrente dell’archivio privato presentava non poche beghe che mi erano sfuggite nella fretta e furia con cui l’avevo dovuto assemblare per salvarlo dall’ennesima cancellazione. pagina bianca cosa? qui devo tenere soltanto a mente le due righe di front matter. la barriera è sempre più prossima allo zero.

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viene fuori che ho sbagliato: ho messo un’immagine e il mero dato ha interrotto il flusso, portandomi a un arresto. però l’immagine è così bella che non ho alcuna voglia di toglierla. e nessuna voglia di restare in arresto, come una battuta. dunque dovrò proseguire.

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un meraviglioso cane nero invoca ed evoca il fulmine correndo sulle rive di un lago

(Stella, ottobre 2009)

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ecco, l’esigenza di andare avanti a scrivere per un po’, senza farsi troppi problemi su quello che si vede comparire a schermo, di modo poi da avere due o tre righe compatte di testo, o roghi di letterine, senza troppi problemi, per testare tutto fino in fondo; e queste stesse righe che non significano nulla, e che dovranno restare qui, per un po’, a segnare il posto, sperando che la folgore non ci colga nel frattempo.