la cittadella era in qualche modo simile a questa che andiamo calcando da una decina di giorni: piccola, costiera, popolata e vacanziera. diverso il suo assetto nello spazio: si sviluppava perpendicolarmente sulla fascia terminale d’una serie di dirupi, e proprio in groppa a questi passavamo del tempo a farci foto a vicenda, cane compreso — nel senso che anche lui fotografava noi, oltre a farsi fotografare in pose sceme come già noi stavamo facendo. scesi poi giù vicino alla riva, che era una lunga cordata di scogli e muraglie di cemento all’altezza della caviglia, mangiando forse un gelato il papà d’una famigliola al tavolo vicino annuncia ai figli che in mare c’è una balena, che tuttavia tra le onde altissime e inferocite non riesco a scorgere. le stesse onde a ogni arrivo a terraferma schiantano oltre il basso muricciolo e tutti i marciapiedi dello stretto porticato sono fradici d’acqua salmastra. a un certo punto un’onda, neanche troppo più grande delle altre, poco lontano dalla gelateria e in coincidenza d’un angolo che dava inizio a un altro lungo tratto di porticato, riversa sul marciapiede una creatura molto simile a una foca, anche se più grande, poco assestata nella forma che volge all’umanoide, e ferita, sia a un occhio che alla coda, in parte mangiata via. a nessuno sembra importare molto. ci agitiamo, cerchiamo di richiamare l’attenzione della gente che cammina in ciabatte e la nota soltanto per schivarne la sagoma e proseguire la passeggiata. la creatura sta palesemente soffrendo, anche se penso che le onde che continuano a scrosciarle addosso, i quali schizzi non mancano di imperlare le cartoline esposte in uno stand a ridosso dell’angolo, fanno in modo almeno di tenerla idratata. non è chiaro se respiri aria o acqua. guardarla negli occhi reca una tristezza insostenibile, come se quel nero emanasse o anche solo rispecchiasse tutta la disperazione e il dolore del cosmo. faccio per avvicinarmi ulteriormente ma,