e sono riuscito di nuovo ad arrivare alle otto senza stilare alcuno dei righi intesi: qualche minuto dopo le sette, tra volute e pallide luci, cacche di cane su breccia e tumidi aghi di pino, tubanti colonie di colombi e primi schiocchi del macchinario dei piani soprastanti che s’avviava al nuovo giorno, aveva preso forma affidabilmente nitida una critica alle gabbie sempre più circoscritte ove i calcoli vanno a costringere le esternazioni — un rantolo in realtà, uno di sparuti ritornelli così tanto intonati da poterli insignire tormentoni — ma poi da un macchinario all’altro, e vittima della medesima meccanica, in puro stupor daemonis anche la critica è scivolata sullo sfondo per procedere in una selva sempre più oscura e anaerobica.
la partita era iniziata in realtà già ieri: al principio del meriggio scoprivo di non essere in grado di lavorare, non per la festa comandata in atto ma per aver sentito la mente scarica e brama indi di nutrirla. la mossa sbagliata è stata recuperare dai recessi altrettanto anaerobici d’un mobile uno di n dischi rigidi sulle piste, sicuro, di qualche spettro, e d’essermi a seguito dileggiato a scrutare cartelle dove a occhio erano fissate copie d’istantanee raccolte con le lenti misere di dispositivi mobili che ormai non esistono più: in una di queste, per motivi non più noti, avevo apparentemente ritratto una pagina di diario che riportava una sbiadita allegoria d’ippodromi e tempi infinitesimali di reazioni involontarie che situava il protagonista, tanto per cambiare, in una qualche impossibilità di sorta a stringere i denti e congegnare altre possibilità di risoluzione. è stato lì che mi sono reso conto d’averli persi di vista, i diari di quell’epoca, da più di qualche anno, e nelle pause dal lavoro che inesorabile come lancia di minuti è poi, festa comandata o meno, seguito, sono andato cercando qua e là nei pertugi non così innumerevoli della risica dimora, sulle prime e seconde senza successo e con crescente smarrimento e sentore di disfatta, per poi alla fine, ormai a sera, messe a tacere le voci schiamazzanti che vado sottotitolando per mangiare, con un gesto secco di quattro o cinque mobili spostati per dare adito a uno sportello di schiudersi, di quei diari ne ho ritrovata una pila forse parziale ma tuttavia cospicua, una torre di blocchi ad anelli, le loro pagine fronte e retro coperte da bulerías d’inchiostri di bic a vari stadi di sbiaditura, i brevi lassi di mesi registrati riportati in da/a tremuli sulle copertine.
quelli che restano fermi non si rendono conto delle catene, mi scorre davanti nell’epigrafe di un tumblr a inizio meriggio. la frase è attribuita a Rosa Luxembourg, ma un centro studi marxista tedesco ne sconfessa la maternità, dicendo che non figura in nessun testo, tranne forse, come indica un redattore in postilla, in una delle tante lettere che non sono mai state rese pubbliche.
l’idea delle lettere rese pubbliche.
sopra la pila di diari spesse buste cartonate di formati difformi, colma ognuna di foto stampate da varie fasi d’una lancinante seduzione della luce che alla fine non ho nessuna intenzione di scrollarmi di dosso. foto di modelle, foto dei cani, foto di mia moglie. e poi cavalli e ombre e altri cani, gente rubata in strada e altra ritratta mentre stava lì a guardarmi per altri motivi.
e niente: anche qui non si raggiunge un punto. dalla prima riga a questa sono trascorse dodici ore di cervello frullo e lavoro tirato coi denti perché non c’era verso di usare creanza e stile. le poche notizie che ho letto non avevano nulla a che fare con le notizie e mi raccontavano di sperequazioni e fulgori e infine di divari sempre più incolmabili. ma anche questo è un trito ritornello, e forse si fa in tempo ancora a cantarlo domani.