dopodiché, raccontai, il mio sogno procede stereo. da un lato il mio tulpa e la tua olosegretaria — ma poi non ricordo come continuava. il testo lo avevo digitato in una delle mie prime mail: era il millenovecentoqualcosa, si aveva poca cognizione di quello che di lì a poco sarebbe accaduto.

ma vale la pena raccontare questa storia? non credo. per il tanto frastuono e la scarsità di segnale ci si è ormai convinti nell’animo che non valga più la pena di raccontare niente. eppure senza racconti la vita sarebbe soffocante, persino impensabile.

in strada a un’amica tra circa quindici ore: “ho thread di conversazione attivi dove da mesi o anni non si fa altro che scambiare pittogrammi, occasionalmente intervallati da scipite righe che non sembrano più capaci di comunicare nulla oltre a un saluto e un rimbrotto”. nessuno sa più quale sia l’argomento di discussione, e proprio come tra le macchine che ci educano il grosso della comunicazione consta di ping e velati comandi. visto lo stato aggravato, acerrimo delle cose, la cosa più sensata sarebbe rimuovere qualsivoglia intento comunicativo dalla narrazione, rimuovere ogni componente comunicativa dall’espressione. sulla pagina wikipedia di John Ashbery si legge che “a dispetto dell’opacità, della complessità postmoderna” dei suoi scritti, il poeta “desiderava che la sua opera fosse accessibile a quanta più gente possibile, che non fosse un dialogo privato con se stesso”. ovviamente, seguendo i due link di riferimento, che rimandano uno a un articolo del New York Times (forse responsabile della fantasiosa interpretazione), comunque sepolto dietro un paywall, e l’altro a uno stralcio di trasmissione radiofonica, si scopre che Ashbery aveva detto tutt’altro:

Scott Simon: Lei ritiene che le sue poesie siano accessibili?

John Ashbery: Beh, mi si dice che non lo sono. Vorrei che fossero accessibili a quanta più gente possibile. E sono… non direi personali… ma parlano dell’isolamento di tutti noi, del nostro intimo, della difficoltà del pensare e del giungere alle conclusioni. Da questo punto di vista sono, almeno credo, accessibili, se qualcuno proprio vuole accedervi.

anche la citazione con la quale voglio fermarmi su questa strada apparentemente senza sbocco, per averla letta riportata in una recensione ove era fatta risalire a un’intervista del 1999 come menzionata da una terza persona, e che sono poi riuscito a rintracciare dopo vari giri di query e galeoni pirata, stavo per riportarla di quarta mano. l’intervistatrice ricorda il passaggio in francese de La Montagna Incantata e ripete quello che aveva da dire Castorp, il protagonista, a proposito: ovvero che in una lingua straniera non doveva sobbarcarsi la responsabilità di quello che diceva, e che, in altre parole, non sarebbe stato in grado di proclamare la sua dichiarazione d’amore in tedesco.

Monika Totten: Ma non aveva problemi a farlo in francese. Questa è una cosa che capita anche a lei?

Yoko Tawada: [ride] Penso che sia un’illusione credere che la madrelingua sia veritiera. La madrelingua è una traduzione di pensieri non-verbali e pre-verbali. Il linguaggio per noi non è innato, è, invece, artificiale e magico. Le persone che preferiscono credere che il linguaggio debba essere identico alle emozioni e ai pensieri umani non gradiscono parlare in lingua straniera. Par loro di dover fingere d’essere qualcun altro, e che parlando una lingua straniera stiano mentendo. Le lingue straniere richiamano la nostra attenzione al fatto che il linguaggio in sé, persino la propria madrelingua, sia una traduzione. Spesso dopo un reading arriva qualcuno a dirmi che non scriverebbe mai letteratura in lingua straniera. Per costui la letteratura è qualcosa di profondo, qualcosa che ha a che fare con l’inconscio. Ma il punto è che non sono le profondità del testo, ma le sue superfici, le lettere, i giochi di parole e il suono delle stesse e i lapsus che hanno qualcosa a che fare con l’inconscio. E queste superfici risaltano di più per chi la lingua in questione non l’ha appresa come madrelingua.

c’è possibilità che non siano solo le regole del gioco a sfuggirci, ma proprio di che gioco si tratti.