magari invece di aprire il blocco note dovrei riaprire la dashboard e continuare a lavorare, anche se vado avanti dalle tre del mattino dopo tentata morte da parte dell’organismo, questo sconosciuto, questo complesso sistema di farraginosi ammassi e così limpide svettanti scattanti scagliate retratte confisse inabissate raggianti tensioni e scosse elettriche, sovranità sinaptiche, sensi stesi a rete verso un mondo che per giogo del gioco, o gioco del giogo, ho persino dimenticato quanto sia davvero incomprensibile. ma forse quest’oggi a continuare a lavorare non ce la faccio: lo specchio mi rende il portamento dei pulcini e gli occhi sgranati di Bambi, i capelli spettinati perché dopo la doccia della media mane ho pure dimenticato di dargli la forma sensata del casco di banane che storicamente assumevano tutt’altri capelli d’altrui spirti quand’era qualche giorno che la doccia non la vedevano — e poi mi distraggo, copio la riga di codice che esanima le legature perché al carattere corrente mi rompe le palle che la “i” che precede i plurali si trasformi nella prima singolare del supereroe che incede, del supercriminale che sproloquia il piano di conquista destinato alla disfatta per default, perché altrimenti in questo lungo vortice d’eroi naufraghi, bibbie manichee e tavolette sumere, che cosa ci dovremmo raccontare?

di fatto potrei pure venire giù da un momento all’altro come la torre dei tarocchi o un più gioviale castello di carte. lanciare le dita nelle righe prima che l’artrosi ci derubi dell’ultimo sogno smemore d’inaudite esecuzioni automatiche. sogno nella mota perché alla fine ogni virgulto resta ed asfissia, tende e trafora e verso luce arde e corre e sale, come non ci fosse un cazzo di domani o come se, questo domani, fosse soltanto un pensiero di passaggio, e tutto quello che c’è da sapere te l’hanno già detto i pini.