più che altro di queste cose ne scrivo per togliermele dalla testa, per evitare di ruminarci sopra a sufficienza da convincermi che contengano la chiave di sblocco del minuto livello successivo, che, in altre parole e in qualche modo, si possa in esse ravvedere l’ammicco di una direzione da intraprendere, la freccia luminosa allusiva dell’ennesimo anonimo viottolo da percorrere.

questo era due giorni orsono, ma un esempio calzante: tre millenni e mezzo fa, a sud del Cairo e a nord di Assuan, nella valle del Nilo, sulla riva occidentale opposta a quella che un tempo era Tebe vennero erette a cuore della necropoli due grandi statue gemelle raffiguranti il faraone Amenophis III, ambedue sedute, le mani sulle ginocchia e lo sguardo volto a est, verso il sole nascente e il fiume, poste a guardia della Casa dei Milioni di Anni, un complesso monolitico che dei faraoni venturi ribadiva la natura divina e la possente, sinché schiacciante regalità. ognuno vede quello che vuole, e tanto sforzo e impegno e schiavi sfracellati, nella rosa delle prospettive possibili della storia, vennero destinati ad intonare un cantico diverso: un cinque lustri prima di Cristo un forte terremoto danneggiò il colosso di settentrione irrorandolo di crepe, facendo sì che al suo sorgere il sole che lo bagnava, scaldandone la pietra, la facesse fischiare e fischiare nel silenzio, rendendo nitido l’impresso che l’alba avesse da piangere a vederla. già l’anno dopo il geografo greco Strabone, in visita in Egitto a seguito d’un prefetto, descrisse scettico l’origine del fenomeno e poco avanti Pausania paragonò il vagito al suono d’una corda d’arpa o lira che si spezza, e in una frase tanto annodata quanto affatto dirimente, già riporta che al faraone delle origini il volgo, con buona pace delle megalomanie dinastiche, aveva già sovrascritto al colosso, per tanto lamento, Memnone, il re d’Etiopia figlio di Titone e della dea dell’alba Eos, che trafitto dalla lancia d’Achille per vendetta conto terzi provocò in seno alla madre tanto di quel lutto che nei secoli venturi se ne stava appunto ancora udendo la eco indubitabile dello schianto e Giulia Balbilla, poetessa amica di Vibia Sabina moglie d’Adriano, quando accompagnò la corte imperiale in sito, per commemorare l’evento compose epigrammi che ancora oggi si possono intravedere incisi sul basamento dei resti confessare che non si sapeva già più che voce divina si stesse levando, ma che certo in quell’alba s’era levata a salutare il re dei re Adriano, che fosse chiaro a chiunque ovunque quanto gli dei l’amassero.

ognuno vede quello che vuole, quello che può sulla base di quanto ha intenzione di credere. da qualche anno si ciarla a dirotto di notizie false come se fossero la causa d’ogni male, quando la radice del problema è forse il dare credito a qualsivoglia tipo o fonte di notizie: la verità si dimostra una proposizione tanto più esile quanto disperatamente la si abbraccia. e tra un milione di anni, quando le onde tremule del forte terremoto che avrà irrorato di crepe le nostre scocche si saranno da lungo tempo dissipate, che importanza avrà mai tutto questo circo, per chi avrà gemuto cosa rammemorando cos’altro? c’è la forte possibilità che la nostra percezione individuale della realtà non sia altro che una fantasia allucinata, febbrile, tanto più tale in funzione della specifica ricerca di senso che a questa solitamente andiamo accompagnando.

sempre negli stessi giorni, leggevo, in un dispaccio dello scorso ottobre scritto da un individuo due decadi più giovane di me che faceva precedere i suoi lemmi dal frontespizio di un quadro antico ritraente san Paolo assorto a redigere epistole al suo desco con tanto di daga poggiata al muro alle sue spalle, fare il punto che ogni post d’un blog (questo genere letterario confuso a cui le masse apparentemente transumanti dai silos in questi giorni vanno ponderando l’attracco) sia in realtà una lunga e complessa stringa di ricerca elaborata allo scopo di scovare, verbatim, genti fascinose per fare sì che dette convoglino frammenti d’interesse alla propria casella della posta: e sembrava pertinente, da più di molti punti di vista, come lo sguardo che esule dal garbo dell’intenzione vaga ramingo in strada e ogni cortesia affettata a esseri estranei o più o meno ritenuti noti e il flehmen e i sospiri e il traffico dei feromoni non faticano ad aderire alla medesima descrizione. e posto che a queste stringhe vi fosse veramente una riposta pronta quanto quella dei motori a cui sovente volgiamo quelle testuali, cos’è che rinverremmo all’altro capo?

devo ribadirmi che è una domanda sincera. la sto ponendo proprio perché ignoro la risposta. e forse sono cieco. o forse: le allucinazioni febbrili generano scrigni di meraviglie. il gioco pare solo finito, anche se i più lo stanno ancora giocando assennati, bruciando patrimoni vieppiù risici e inconsistenti, latrando agli avversari minacce con la mimica del corpo e i quattro fonemi in croce di chi come si parla ha smemorato, pare finito perché nel lasso che ci precede nessuno sembra aver saputo eseguire nuove mosse e ogni iterazione nasce stanca, opera spossata sbuffando fino all’inevitabile chiusa per letalità di tedio. tutte queste frasi vertiginose e vorticitanti per dire sempre la stessa cosa, e di preciso, cosa?

nella vita, trascrivevo qualcuno nei miei appunti all’alba del 25 settembre 2020, siamo creature incoerenti, frammentarie e incomplete dal potenziale immenso. potrebbe tornare utile fare lo sforzo di divenire quanto coerenti sia possibile nella vita, e provare ad articolare le nostre sensazioni e volgerle in linguaggio, parole e simboli. l’anno dopo, in un post che andavo a porre a lapide dal nulla sull’ennesima avventura, riassumevo succinto the lazy fuck reptile brains of most, per dopo righe e righe scrivere in chiusa come along, micro ghost you, there’s plenty of space to roam.

la parola del giorno è passata da sinew a tendril, ma stiamo ancora parlando dalla stessa cosa. dal blocco togli pietra e riveli forma. la soluzione passa per l’aggiungere spazio. tutto quello che riesci a immaginare, quando spegni questo cazzo di cervello.