i quaderni di Marie Curie sono ancora radioattivi, e alla Bibliothèque Nationale devono tenerli chiusi in una teca rivestita di piombo. forse c’è ancora speranza. o perlomeno mi capita di pensarlo dopo aver pensato d’averci almeno provato, insistentemente, un passo e un inciampo e poi un altro passo e via così, da anni, finché da anni non sarà da secoli e questo piombo potremo anche toglierlo.

su un silo credo una decade fa mi ero chiesto cos’avrebbero dovuto farci con tutti quei contanti se non decouparci il sarcofago, ma poi nel tempo è sorto evidente che il punto non era neanche quello. questa è la mia casetta, alla fine, quale che sia l’ultima destinazione d’uso, e allora tirar giù le tende o cambiarle, quando non persino smantellare le mura, appare tanto più lecito quanto un guizzo, e rivedendo le vecchie categorie mi sono accorto che un tempo tutta questa forma non c’era, bastava una colonna in serif e un titolo del cazzo e poi le dita ballavano e ballavano e ballavano fino all’ultima mossa che con uno scatto secco chiudeva la bulerías schioccando e poi via, nella notte sempre più prossima a ridosso d’un solstizio o l’afa ancora impossibile dosso l’altro.

dovevo attaccare alle sedici e trenta ma alle sedici e dieci, invece di mettere i panni da lavoro nello zaino, aprivo l’editor e scrivevo qualche riga, sempre e solo come se potessero essere le ultime. dieci righe, o una foto, o una foto con sotto dieci righe. tutto quel mondo è scomparso. non solo perché sono scomparso io e solo per riapparire altrove, ma perché a furia di vedere fantasmi ci siamo dimenticati cos’era un corpo, e avendo smarrito l’ancora, cos’altro resta da fare se non naufragare?

andavo via, e prima del ritorno nella notte non sapevo nulla di quanto sorgeva a commento: i computer non si portavano né infilati nel culo né attaccati alla faccia, e nel vasto allucinato del corpo nella fatica e nel sudore, nel tiro al piattello con lo sputo degli endodemoni, il vasto materico porkòdion vorticitante, solo il cervello andava avanti sconnesso dal contesto a immanentizzare birilli e bertucce, tucani e spinterogeni, ombrelloni sbiaditi e lisi e latte di lattice mezze vuote ma tuttavia bastanti, ogni piccolo elastico e collante saliva per assemblare le più scintillanti delle astronavi.

ecco. la mia casetta è pur sempre un’astronave. magari non pare ma pure, senti il rombo. a te pare un fischio da qui, ma se lo rallenti si capisce meglio. è un suono continuo che sale e sale, gorgoglia e muggisce, ringhia e grugnisce, t’apostrofa con frasi senza termine che vogliono solo ricordarti che sei vivo.

vivo. vivo.

dove una folla lo sta urlando come s’urlerebbe nudo! nudo! o nuda! nuda!, ferali ai bordi con visione offuscata, lembi arzilli pronti a pugna o abbracci e ogni secrezione secretabile secreta a guizzi e zampilli, ad aerosol ottundenti, assordanti, tutti a puntare al centro del circolo circasso illusi che vi sia altro lì oltre a uno straordinario, ineludibile vortice. quando invece,