l’agevole facoltà di compilar missive, scriveva Kafka alla sua Milena, deve aver portato scompiglio e rovina tra le anime del mondo. scrivere lettere è infatti un intrallazzo tra fantasmi, non solo col fantasma del destinatario, ma col proprio, che s’evolve in gran segreto nella lettera che si va scrivendo o persino in una stringa delle stesse, dove una ne corrobora un’altra potendola insignire a testimone.

difficile dargli torto. ogni rigo scritto per uno sguardo umano, foss’anche questo il proprio e solo quello, è un coito tra fantasmi, o perlomeno, nella lenta e ipnotizzante seduzione della carovana di lettere che traversa il deserto della pagina bianca, ha iscritta quella missione ultima nel nucleo del suo mandato.

le cose andrebbero sempre ridotte al termine minimo del gesto che può descriverne l’azione primaria. Gaiman metteva in bocca a Shakespeare che i sonetti si scrivono per spalancare gambe, e un pallido conforto è ricavabile dalla nozione che in ultimo, al netto della tara di chi mai legga o ascolti, ogni roboante monologo, segretamente o sotto la soglia di quanto possa essere udito, si agita timido e a cuore in mano secondo le coreografie del dialogo.

detto questo, quando i giorni e le missive erano amici più intimi, i pacchi di minuti che ci offriva ogni risveglio donavano scrigni di tesori più opulenti. è da ieri che questo dettaglio, a mo’ di cartaccia, deiezione canina o bubblegum sotto le suole, m’è rimasto impiastricciato alle pieghe delle meningi, non tanto la sua mera constatazione quanto il fastidio di non riuscire a dirimerne con approssimata certezza le cause ultime: l’installazione e l’esecuzione continua della messaggistica istantanea nella kermesse di tessuti sociali che ci avviluppa ha portato la frequenza e il ritmo della comunicazione interspecie a livelli inauditi, ma queste particole di mitraglia che ci piovono addosso gemelle di quelle che elargiamo, pur con l’impellere dei telegrammi e spesso come questi possesse dalla frenesia del morse, del pane fragrante del senso sembrano soltanto inerti farine, e nell’affanno di dispensarne e pararne finiscono per deficitare sia dell’acqua del pensiero compiuto che dovrebbe informarle, sia del lievito del cogito necessario a comunicar questo nel suo intero, e in ultimo del lasso di riposo e crescita che questo benedetto pane vada a condurre al destino del forno e ultimata cottura. le cose peggiorano esponenzialmente: dopo una decade di vampirismo robotico e i vasti danni serotoninici e dopaminici che questi s’era prefissato, pare sempre più ubiqua la facoltà, nei comms, d’appiccicare dita e cuori e faccini gialli sganasciati a scudettar particole, assolvendoci da un lato dal dovere e il garbo di pensare una pur monosillabica replica, e dall’altro forzando anche le nostre conversazioni sempre più teoricamente private a immagine e somiglianza delle stesse griglie che per la decade in questione ci sono andate irretendo per venderci le liquerizie al gelsomino e i weekend lunghi nelle spa subappennine a una frequenza ormai così ripida da aver scagliato loro stesse nell’inusabilità e i poveri cristi a esse affastellate in uno sciatto paradigma monodimensionale das kapital che da buon mostro di fine livello sembra quasi impossibile da esorcizzare.

c’è pure da dire che la corolla primeva di tanta frenesia, saturazione e disattenzione ha portato tutti, me in primis, a sospettare l’innesco di qualsiasi conversazione come potenzialmente indesiderato, forse inopportuno e comunque giammai auspicato: e se nel tempo intercorso sono mutati i protocolli e il galateo della chiamata telefonica e ancor più rapidamente quelli della più giovane posta elettronica, che ne è, in questo giorno ed epoca, della missiva cartacea? trascorro la poco sovente congiunzione astrale di ogni momento libero e propizio a scrivere, e tuttavia nell’ultima decade, appunto, non credo di averne stilate più di tre, un numero che, paragonato alle decine e centinaia di quelle precedenti, più che indicare un calo sembra alludere a un errore di sistema o a un’anomalia statistica, e anche queste comunque, salvo quella inviata a una cara amica per punto di farlo, hanno avuto origini tanto strane quanto anomali gli esiti: una l’ho scritta e persino illustrata, ma per tema d’invadere la privacy altrui chiedendo un indirizzo a cui recapitarla, l’ho infine scansionata e allegata a una meno invasiva mail, e l’altra, non possedendo recapiti più affidabili per la persona cui era destinata, ho finito per lasciarla dosso un parabrezza bloccata dal tergicristallo nell’umida notte autunnale, come una spia russa in un anonimo lungometraggio monocromatico. anche da questi episodi è trascorsa tanta caterva d’anni da diventare a breve una decade a sua volta. i fogli bianchi vagano onnipresenti e bradi nella casa assorti in altri scopi, ma le buste da lettera, intrappolate in chissà quale cassetto, saranno di sicuro ingiallite e i francobolli, perlomeno nella mia zona, sono diventati quasi impossibili da reperire senza ingenti spostamenti e lancinanti file. è ignoto se la storia della letteratura coprirà il futuro: le orge gaudenti dei fantasmi proseguiranno probabilmente imperterrite, ma le raccolte d’epistole saranno tutte titolate lettere a nessuno.

la storia fagocita per progetto ma avvertirne i denti aguzzi che strappano un brandello della propria vita è un sentore curioso. chissà se anche i cadaveri provano la stessa cosa.