poi come una scure Emily Ogden e quel il fatto che assorbiremo soltanto un quantitativo limitato di conoscenza nel corso delle nostre limitate vite — il fatto che, il fatto che, quella perentorietà che dopo l’ufo di ducks, newburyport nessuno potrà più sfrattarmi dal cranio — a notte fonda, le idee del giorno come l’edera troppo pesante che, nella tormenta che procede senza sosta da ier l’altro, è rovinata in terra trascinando alle sue spalle l’intonaco, le migliaia di schiocchi ovunque d’infissi malfermi e infiltri di spifferi come nel finale di Testa piena d’orche e che anni dopo avrebbero spaventato Stellina, la recensione di Heimir Bjorgulfsson a una collaborazione tra Meelkop e Honore Boe, con quella chiusa di chiudo gli occhi e sembra il garage di un gommista dove non sta lavorando nessuno, al punto in cui posso persino sentirne l’odore, ma all’improvviso sono in alto, sul versante d’una montagna e quasi il vento mi scaglia giù in una caduta rovinosa… e sì, è materiale selvaggiamente romantico, e lo adoro! con tanto di punto esclamativo, che dopo anni riportata in italiano è una mano mostrata anche quando nessuno sostiene il rilancio, quel selvaggiamente così tradotto a legno come la mandria narrata brada in corsa nelle vie dei contrabbandieri al compleanno della mamma, e nel mondo tanta maniera, selfie con babbo natale o controluce per non escludere il panorama, maniera sulle copertine e nelle foto promozionali, maniera nella successione dei paragrafi e delle arringhe, nel querulo succedersi delle filippiche, delle dichiarazioni d’intento, degli ammicchi ad altri rimandi e poi ad altri ed altri ancora, i limiti dei caratteri, i leggi di più, i troppo lungo, non l’ho letto. c’è tanta, troppa maniera. dagli fuoco.
nel finale del racconto l’autrice menziona che in Les Plages d’Agnès — mai visto e fermo ancora da qualche parte nello storage in uso e in chissà quanti altri duplicati e versioni in archivio — la Varda dice che se aprissimo le persone troveremmo paesaggi. se aprissimo me, aggiunge, troveremmo spiagge. e se aprissimo me, invece?
più avanti mentre narra l’anziana regista ricorda d’uno dei suoi film la scena dove l’attore principale conversa con un cavallo. l’isola mi ispirava, commenta a introdurla. c’è un pugno di fotogrammi sognanti, una ripresa quasi statica che non mostra altro, una epifania esplosiva. il sottotitolo solca i dodici frame oltre il cambio scena e finisce sul primo piano di Catherine Deneuve, all’epoca poco meno che ventitreenne e radiante come un angelo, che guarda non proprio l’obiettivo, accennando un sorriso mite prima di scomparire e poi riapparire, e riapparire ancora, lo sguardo che pare bruciare l’aria che traversa mentre Michel Piccoli continua a evadere l’inquadratura.
l’ultima domanda in ordine di apparizione non andrebbe risposta adesso. esiste la possibilità che lo scorcio interno ci sia ancora del tutto ignoto, e che moderni magellani ci si dischiuderà davanti quando meno ce lo aspettiamo, così abbagliante da poterci persino accecare. credo di essere già giunto a questa conclusione, tempo e tempo fa, parlando di tutt’altro e riguardo appunto a tutt’altro fatto. l’intero dell’esistere consta soltanto di disposizioni coreografiche: per fungere alle prove come sul palco o nel proprio salone, basta solo che ci possegga la danza e ci si smemori del resto. per una volta un necessario oblio.