Ogni tanto vedi una fattoria appena incastonata nel versante, o una calca di cavalli. Un paesaggio a monosillabi. Niente neve. Niente vento. scrive la Carson in uno stringato diario di viaggio in Islanda che la London Review of Books pubblica oggi, e che è uno dei pochi sollievi d’un periodo che la superstizione e l’in guardia perenne alle possibili faziosità endodemoniche m’impediscono persino di definire bigio: la neve cade solo alla fine, e mentre l’attende rievoca quella di quattordici anni prima, alla luce della quale, scrive, di notte si poteva quasi leggere un libro. di quelle stesse ore, pure:

A rammentare quel giorno quando sei andata a Stykkishólmur sembra che il tempo oggi abbia il blocco dello scrittore. O davvero, in questi giorni, non è tutto il mondo ad avere il blocco dello scrittore — in alternanza non trovando più nulla da dire o riversando giù temporali, tormente, bufere, ghiacciai fusi, colate di fango e vulcani d’auto-spropositate biografie?

la neve l’abbiamo sfiorata e non s’è udito sferraglio di rotaia alcuna. almeno siamo rimasti vicini al cane. propizio è proseguire ma non s’accosta approdo e il nudo dato dello scarto dovrebbe già far da maestro. è sempre più difficile trovare un equilibrio. come bipedi siamo condannati a barcollare.