di fare poesia, come avevo detto a un amico una decina d’anni fa a riguardo dei film horror, credo valga ancora la pena. ieri notte in un volume di Fady Joudah è emersa un’immagine sconvolgente, i campi magnetici di tutti i cavalli che non s’erano mai cavalcati e nel loro vortice le anime di trascorsi cavallerizzi e trascorsi destrieri, anche quelli di plastica messi in fila sul davanzale e quelli che ancora semino sugli altari rinvenuti nei parchi locali come omaggi degli spiriti e sulle scrivanie dal grande mercato del mondo, ed ho dovuto mettere giù il libro o il suo fantasma nel quadruccio che l’impila all’oblio, mentre sfumava nel buio della stanza l’ultima riga della prosa che alludeva a un cuore di cerbiatto che per suo progetto era destinato a fuggire. tutto questo e un milione di turbini ed erano soltanto pochissime righe. intorno il buio e i respiri di chi mi vive a fianco.

che poi dieci anni prima al mio amico non avevo detto che di fare horror valeva ancora la pena, ma che il genere aveva ancora qualcosa da dire. che cosa dovremmo dirci poi, in tutto questo frastuono, in questo mastodontico e slabbrato valzer di sindrome traumatica alla quale abbiamo persino dovuto cassare il post, tanto questi lividi sembrano il costo dello stare al mondo, lo scotto del quale, prole d’un dio assurdo, l’andiamo pagando giorno dopo giorno.