se vuoi rinsavire, presta attenzione agli uccellini. è tanto che non ci sentiamo e ho pensato che forse era il caso di scriverti qualche rigo, ma non appena ho preso penna e carta ho iniziato a ripensarci, e dopo qualche minuto mi sono alzato dal tavolo, sono uscito dalla stanza, lasciandomi alle spalle medicinali oncologici e sterpaglie adattogene e avanzi poco lauti del pranzo, la luce del primo meriggio che filtrava appena e spenta e grigia dalle tendine cinesi sagomate come le porte a volta degli harem rovesciate. sono anni che non riesco a decidere che carattere usare. ho pensato che assumendo radici avrei invocato gli alberi, inoculando pollini la coreografia fatata che trasmette la vita come un segnale. la settimana scorsa ho sognato che nella vecchia casa erano emersi ruderi etruschi e non si riusciva quasi a transitare tra le stanze: la volta precedente lo stesso effetto era stato raggiunto spostando i mobili per dare un’imbiancata, quando non servirebbe, annotavo sul diario a riguardo di tutt’altro, altro che spazio, scimmiottando per altro ogni maestro Dzogchen che il cielo si sia visto emergere sotto al manto. ogni contesto ctonio funge da placenta a qualsivoglia convoglio verso la luce. l’intero dell’avventura di Spada Magnetica non era altro che allo spazio un inno: principiava col discepolo di Tārā ritratto da Tāranātha nell’Aurea Ghirlanda errabondar mantrando finché non trova in terra la spada del titolo e finivamo di seguirlo nel vuoto delle cose che la rete non rammenta più, ma se mi metto zitto, in un angolino, con un giornaletto, posso sentirlo che ancora si snoda nitido, come se non avesse mai smesso di cantarlo nessuno. i ruderi etruschi emergevano al culmine del retrogrado e non profumavano granché di buona sorte, e una mezz’ora dopo stava già andando tutto storto, per poi dopo qualche giorno andare bene e in porto, e poi di nuovo storto, e poi di nuovo bene, anche se il porto è forse ancora lontano: nella ghirlanda dell’esperibile che ci tocca in vita quasi tutti i dolori sono doglie. in uno dei Prajñāpāramitā lunghi Mañjuśrī suggerisce di considerare forma e sensazioni, percezioni e costrutti mentali e l’intero della coscienza come vuoti e quiescenti, immanifesti e imperituri, eguali, privi di qualsiasi differenziazione, e se lo si fa a lungo e indefettibilmente e in ogni circostanza si raggiunge una condizione incomputabile priva di ostruzione alcuna. e ovviamente quello che va storto e poi bene è quasi sempre e soltanto la frequenza nel cranio: ogni secondo in più trascorso in piedi in gara alla gravità sottolinea proprio questo dettaglio. ci hai mai pensato? nelle scuole taoiste meridionali, in uno dei primi incantesimi che viene trasmesso agli adepti si purificano oggetti e ambienti chiamando Jiu fèng, Fenice Nove, un uccello a nove teste del quale si trova traccia già nelle prime versioni dello Shan Hai Jing, un compendio di folklore geografico che va in giro da oltre duemila e cinquecento anni. all’arrivo della fenice i praticanti percepiscono un cambio secco dell’atmosfera, un’improvvisa, nitida purezza che ricorda l’aria di montagna nelle foreste di conifere, accompagnata spesso da un susseguirsi di fosforescenze violacee che recano volti d’uccelli o donne avvenenti e un sibilo simile al frangersi d’onde. a un certo punto i ruderi diventano querce ma forse anche le querce sono etrusche. il periodo è lo stesso della fenice ma a dire etrusco non sembra così remoto. mentre facevo pipì ieri notte ho notato che sull’angolo delle mura nell’intersezione dei raggi di lampade dello specchio e lampadari la mia testa proiettava sette ombre. guarda, ho detto a Paola, sette teste, come i miei amici, tutte quante poi col casco da Big Jim che sembro non riuscire a fugare in nessun modo. più avanti nel sogno dovevamo fare lo stesso viaggio che dobbiamo fare oggi, tacendolo peraltro come già accadeva lì e per i medesimi motivi, e ci chiedevano a che punto fossimo del transito. stavamo vedendo un film che era un pappone alla Tenet, con viaggi nel tempo e una lunga scena iniziale di gente che nuotava in giganteschi serbatoi d’acqua per motivi che credo mi andassero sfuggendo anche in corso di visione. nel film si usava quella che era una tecnica ormai assodata, che incorporava scene in teletimecast, dove gli sfondi erano di fatto girati nel passato, e mentre vedi il film ti puoi girare a guardare altrove senza essere costretto a seguire la telecamera, e in una di queste mentre un tassista arabo conduceva il lead sul corso di Albano a fine anni novanta, dal sedile posteriore del taxi vedevo mio padre camminare fumando mentre era ancora vivo, vestito di jeans, e non aveva nulla a che fare col vedere un morto in sogno. era proprio il passato. forse un giorno finiremo tutti come comparse in un kolossal, perché ci siamo già finiti e perché è già successo. devi immaginare che mentre ti scrivo questa lettera succedono altre cose, passano mezze giornate di eventi di cui non saprai mai nulla, e che la data che vedi in incipit è la prima menzogna, perché registra solo il momento che precede la prima parola, che in questo caso è stata se, ma senza se, senza ma, fuori s’è fatto mattino già da un pezzo. la primavera si è messa da parte e osserva attonita assieme a noi un fascio distopico di perturbazioni, che nella corolla dei suoi margini ci risparmia almeno l’anticipo degli effetti più funesti dell’estate. lo vedi? non è tanto l’anaffettività, che pure, il guaio, quanto una cauterizzazione dell’empatia. a furia di vivere per proxy si diventa prima alessitimici e poi direttamente delle suppellettili, e hai voglia tu a chiamare fenici per purificarle. ma cosa costa capire che quello che va avanti nei nostri organi va avanti in tutto il resto? che paura c’è? cosa si teme? di cogitare troppo? di provare troppa pena? e quale sarebbe l’alternativa? in una prosa di F Franz Wright rincontra dopo anni il pesco fuori casa, dimesso quanto lui in prossimità di morte, e si strugge percependone infine le simiglianze, e chiude chiedendosi che cosa ho fatto? di cosa ho avuto paura tutta la vita?

non riesco mai a decidere che carattere usare, ma forse è solo perché dovrei direttamente scansionare quello che graffio sul foglio e inviartelo senza mai più pensarci. per quanto ci affanniamo a riempire le pagine dei nostri giorni quello che ci lasciamo dietro è solo un accumulo di scarabocchi.