credo ieri d’essermi imbattuto nell’ultimo tramonto d’autunno: sclerato da un pugno d’ore d’assistenza al deliquio — quella becera e insulsa poi, che assume i tratti inconfondibili della testimonianza — e un paio di altri giri alla ricerca dei comburenti di tabacco e contante, sfrecciavo verso casa desideroso di riparo, e attraversando il ponte la luce era assurda su ognuno degli orizzonti, un dramma di contrasti nitidi inondati d’arancio sangue al versante del mare, e al lato dei boschi un verde che i raggi a cannone facevano apparire neanche di questo pianeta.
oggi è già tutto diverso e al centro del mattino un drappo cobalto grava pure troppo raso al suolo, e nell’aria si capisce che qualcosa è cambiato: il retrogrado ha ancora una settimanella di pazziata per fare danni e di quel ponte, che avevo sognato lustri orsono essere mio amico quand’ero piccolo dormendo nelle sue viscere, il nome conferito è troppo tempo che non lo pronuncio, ma cerco di serbarlo come fusa dentro ogni qual volta ne sfioro il cospetto.
oggi è tutto diverso e per assistere il deliquio le ore sono dodici, e sospetto interminabili già all’incipit, mentre la mamma ripete uno script stringato di sempre le stesse cose, e apre e chiude finestre e guarda fuori, lamentando il deserto e il freddo e tutto quello che c’è da lamentare da una vita.
poco fa, rifugiato nel bagno che mi ha veduto crescere e che in ultimo sempre quello è stato — il rifugio incerto d’una porta senza chiave e d’una riservatezza a rischio che per anni è stata l’unico tesoro — mi sono trovato a riflettere d’essere giunto forse ai limiti del dare, e di serbare in cuore il desiderio forte d’un transito nel ricevere, senza capire bene poi che forma di preciso questo debba assumere. la mente esonda come d’uopo e in fretta, e a stretto giro l’ho vista allontanarsi al galoppo a chiedersi che gusto immaginifico potesse avere il limite del ricevere.
mi viene il sospetto che queste acrobazie predittive il cervello le operi soltanto per dissimulare il disagio di dover convivere con le valutazioni presenti. è stato questo, sempre, il gioco: una fuga giuliva da tutto per mancanza d’aria, un rifiuto stoico a scendere a compromessi con i dettami basici della realtà consensuale, mentre gli occhi della mente s’intrallazzano ammaliati ad avventure impossibili e scorci sempre più esotici, e l’unico nervo che dona nerbo a spente ore è un verbo incomprensibile e inaudito, ed è così compresso e d’agito che spacca tanto i denti che lo fischiano quanto le vetrate che proveranno a contenerlo inutili.
questo verbo qui, che da sempre ci assorda. e poi per quanto il sole baci le cime d’Olimpo, la morte avanza senza indugi e s’avvicina quatta.