poi una cosa confusa sul cielo che andava avanti ore a rombare senza che nulla di rimando schiantasse a terra irrìgo: le dita che non trovano più la giusta destinazione sulla scacchiera delle lettere, e a ogni lemma di senso compiuto precede un grumo di bradi dittonghi e impronunciabili particole. nell’assedio che procede con le unghie già troppo lunghe a minacciare i margini ci si riduce all’ultimo istante a lasciare una traccia che pur girando da ore nei bassifondi delle meningi, quando si esprime sembra ancora più confusa, insensata.

tra cielo che rombava e ancor’arida terra s’intravedeva ammicco d’un pattuito amplesso, dove allo strascico ineludibile d’una tensione ai vivi nota succede lo sgorgo d’un rilascio denso atteso giorni, settimane, mesi: icore di nude pietre e bulico di geosmine assise, come predoni pronte a far ratto di gole e strangolando infine, come se il dramma ultimo dell’universo si nascondesse davvero ovunque, oppure vounque, oppure proprio quello il dunque: fare domani una cosa sana di mente. una. almeno una. per non smarrire il vezzo.