forse quel giorno l’intervista non aveva nessuna voglia di farla. in genere rispondeva sempre con agio innaturale, con dileggiata ciarla alle domande che le venivano poste, un po’ come se conoscesse bene chi l’andava esaminando e ogni ammicco, ogni riferimento, trovasse sempre fertile mota all’atterraggio. forse non le andava e basta: la temperatura troppo alta per quelle latitudini — per non parlare di quel momento dell’anno — per altro resa più grave e inimicale dalla litania dei notiziari che di volta in volta l’appellavano con sintagmi sempre più nefasti e che ormai, dopo pandemie e guerre e aumenti e altre pandemie, altri aumenti e restrizioni e umori generali sempre più esili e volubili e tutta la corolla del crash della distopia nella realtà consensuale, sembrava generare un’orticaria istantanea che di rimando toglieva il minimo di fiato che aveva già fatto fatica a conservare fluido. le domande sui generis, poi, pregne d’un entusiasmo studentesco e giovanile che in tema d’orticaria adduceva solo insulto all’ingiuria, non fossero bastate le difficoltà di connessione iniziali e ogni bega possibile della telepresenza, erano state la goccia che aveva fatto straripare la diga. a volte, però, bisogna infilarsi in contesti impossibili per dare il meglio: e dopo aver negato una sinossi del proprio tomo fresco di stampa sulla base del fatto di non sapere mai quello che aveva scritto se non anni e anni dopo, d’aver dunque rimandato per quella l’intervistatrice alla quarta di copertina, alla domanda seguente rispose nel più perfetto, sensato e inespugnabile dei modi:

e per quanto riguarda il libro, l’ho scritto perché scrivo