ho dormito abbastanza, il che vuol dire che, forse, non è più il momento di dormire. la penna è stata poggiata e poi ripresa solo a tratti nella carovana di ore seguite. note di lavoro, numeri di telefono, battute smozzicate agli script e pensieri in fuga, disegni di pesci, pitoni, polpi e uccellini: da qualche parte in casa i recipienti vaghi che ne contengono a frotte sono le scatole nere del loa trabaille al centro del cuore. nelle puntate precedenti, mentre scrivo il diario che fuori albeggia, emerge alla mia consapevolezza il concetto di antisingolarità: dove nella singolarità come spettacolarmente intesa l’accelerazione tecnologica permette all’intelligenza artificiale di scavalcare quella umana, nell’antisingolarità

nessuno supera nessuno, le capacità computative di uomini e macchine pattinano a vuoto perché ormai i sistemi sono saturi di merda e non solo non resta più niente da pensare, si è anche smarrita la cognizione di come andrebbe fatto

e non servono neanche verifiche: l’antico assioma del gigo, in virtù della medesima accelerazione, rende da tempo responsi immaginificamente inservibili, e a furia di accelerare le colonne di fiamma delle culture esplose sembrano l’unico vessillo capace di condurci al cielo, lo stesso cielo, comunque, vuoto per miliardi di chilometri e indimorabilmente glaciale.